«11 settembre 2001, a New York ho assistito all’epifania della storia»

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Il primo ricordo non è quello della catastrofe e della fine di un mondo. Il mio primo ricordo del martedì 11 settembre 2001 a Manhattan, è di un’effimera felicità. Effimera, non a causa della Storia che cambiò il suo corso la mattina di quel giorno e trasformò l’euforia in angoscia, ma perché la felicità è sempre provvisoria. La giornata si preannunciava bellissima e non occorre citare la letteratura né certe riprese dei film di Woody Allen per raccontare il fascino di New York all’inizio dell’autunno.

Dalla finestra del mio piccolo appartamento, a trecento metri dal Central Park si vedeva un cielo azzurro, un sole mite e si pregustava il profumo, quasi ineffabile, di aria tersa. Il giorno prima avevo mandato all’Espresso un articolo, scritto assieme al collega Andrea Visconti, sul tramonto della città che si credeva il centro del mondo. Fra episodi di cronaca mondana, dati economici pessimi, considerazioni di politica locale (sindaco Rudy Giuliani) e commenti su come New York (con le sue infrastrutture obsolete) assomigliasse a una persona invecchiata, dal glorioso passato che riesce talvolta a illudere chi vi cerca il futuro e la giovinezza. Ero felice perché avevo davanti una bellissima mattinata senza impegni. Decisi quindi di fare una lunga passeggiata al Central Park.

E così, alle nove meno un quarto mi sono fatto rapire dalla magia e dallo stupore di fronte alla gamma cromatica delle foglie autunnali sugli alberi del Parco: dal giallo oro, al rosso sangue, al marrone scuro. A un certo punto ho deciso di chiamare il collega. Lui andava in redazione molto presto, dato che chi scrive da New York, causa fuso orario, è sempre in ritardo di sei ore rispetto a Roma. Gli ho chiesto: Andrea, ci sono novità? Risposta: «Be’, una piccola storiella, un aereo turistico, un Cessna, si è schiantato contro una delle torri gemelle. È successo alle nove meno un quarto». Ho fatto una battuta su come a New York niente funzionasse bene, neanche i controlli del traffico aereo. Ho pensato che avrei dovuto inserire la storia di quel Cessna nell’articolo mandato il giorno prima, a conferma delle nostre ipotesi e parole. E così (all’epoca non si facevano telefonate internazionali dai cellulari) tornai a dimora per chiamare il giornale. Strada facendo vedevo signore che commentavano l’accaduto con i portieri degli eleganti edifici che si affacciano sul parco: «Ma com’è possibile che un piccolo aereo…».

Entrato in dimora, alzata la cornetta del telefono, fatto il numero di Roma, acceso il canale tv delle news locali vidi un grande aereo (altro che Cessna) entrare nella torre Nord delle Twin Towers. Subito dopo, un altro aereo si schiantava contro la torre Sud. Non mi ricordo se l’immagine del secondo aereo era una ripresa in diretta. Mi precipitai sul viale che costeggia il Parco. Da lontano, dalla punta Sud di Manhattan si stava alzando una nuvola color grigio. Avevo capito, all’improvviso, di assistere all’epifania della Storia, in un luogo, Manhattan, che sembrava comandare il mondo, ma è sempre stato al riparo del mondo.

La memoria di New York è ambivalente, così come sono capaci di ambivalenza i suoi abitanti: cinici ma propensi a gesti di solidarietà. E poi, a New York si ha uno sguardo attento sull’Europa. Da un lato è forte la nostalgia: per i cibi, per la musica e le canzoni degli antenati venuti dal Vecchio Continente. È come se gli abitanti della città avessero bisogno delle radici, lontane e altrove. Dall’altro, c’è la felicità per non essere nati oltre l’Oceano e per la sensazione della sicurezza che dà l’America. Vale specie per gli ebrei, ma non solo, in questa città, la più ebraica del mondo, dopo Tel Aviv. Ai tempi, tra gli anni Novanta e i primi del Duemila, ci si chiedeva spesso, come mai l’America non avesse portato aiuto, durante la seconda guerra mondiale, agli ebrei intrappolati in Europa. Alle persone, nate dopo la guerra, i genitori e i nonni ripetevano: qui da noi cose come quelle non possono accadere. E poi: qui non c’è guerra. I nostri soldati, quando combattono, lo fanno lontano dai nostri confini. Una città insomma, New York, che non imita l’Europa, ma la cui vita è stata plasmata, in gran parte dai profughi della catastrofe del Novecento.

Figlio di profughi ebrei europei era Michael Kaufman, la mia guida nella città e negli States. Kaufman, giornalista del New York Times, era figlio di un padre comunista nella Polonia prebellica (e a lungo prigioniero politico) che se ne andò in Francia e da lì, nel 1940, riuscì con la moglie e il figlio (Michael appunto) arrivare a Lisbona per imbarcarsi su una di quelle navi che con tanti altri rifugiati raggiunsero New York. Ha girato il mondo Michael: ha raccontato le guerre in Angola, Congo, Afghanistan, è stato corrispondente in India e anche a Varsavia, negli anni Ottanta.

Ma la cosa che più gli dava soddisfazione, era la rubrica che teneva sulle pagine locali del giornale e in cui raccontava i suoi incontri, sulle panchine dei parchi, con gli uomini e le donne comuni. Guardava New York con gli occhi di chi ha visto Kabul. Appena sono arrivato in città lo chiamai, lui mi invitò a dimora sua. Mi servì un gin tonic, scomparve per tre minuti e tornò nel soggiorno con la copia di un reportage su un signore di una comunità rurale, nel centro degli States. Mi disse: «Questo è il ritratto dell’americano medio. È questa è la realtà che devi capire prima di narrare le gesta dei politici».

Per questo Michael, scomparso nel 2010, era una guida perfetta: memoria dell’Europa, l’America dei grandi spazi e la New York di chi è uscito da dimora per fare la spesa. Aveva una spiegazione plausibile di ogni questione che gli ponevo: dalla visione del mondo di George W. Bush («non ne ha») appena insediato alla Casa Bianca, alle idee di Giuliani, il sindaco che lui non sopportava («autoritario, macho, grottesco»). L’11 settembre lo chiamai nel pomeriggio. Fece elogio dello spirito degli abitanti, dei volontari, dei pompieri (ci tornerò), ma non sapeva dare una spiegazione di quello che era successo. «È crollato il mondo, quel mondo in cui sono cresciuto e che per mio padre era la terra promessa», mi disse.

A metà mattinata, il World Trade Center non esisteva più. L’ammasso delle macerie aveva la forma di un gigantesco animale preistorico, sdraiato per terra: un richiamo primordiale rispetto alla tecnica del Terzo millennio. Primordiale anche perché in fondo, gli aerei, prodotto di tecnologie ipersofisticate, sono stati usati come strumenti contundenti, gigantesche asce che tagliano in due edifici, simbolo del sogno americano. Prima però, ci furono le scene che tutti conosciamo dalle immagini: gente che salta dalle finestre, i pompieri che cercano di salvare le persone intrappolate fra le fiamme e le mura cadenti. Il portiere dell’edificio dove si trovava la redazione newyorkese del Gruppo L’Espresso, verso le nove della sera, mentre uscendo lo salutavo, mi disse: «So che è un paragone inappropriato, ma quella gente che saltava dalle finestre degli edifici in fiamme, mi ha ricordato il Ghetto di Varsavia. Non credevo di vedere cose simili, qui in America».

L’aria della città era diventata irrespirabile, una mescolanza di odori che sapevano di morte. Lungo i viali, dal sud e verso il nord procedevano gruppi di fuggiaschi. Erano usciti da dimora per andare al lavoro vestiti delle loro divise da manager, travet, uomini e donne di finanza: giacche firmate, camicie bianche, cravatte, tailleur, scarpe italiane. Ora, con movimenti rapidi ma incerti camminavano coperti di uno strato di polvere grigia. Erano sporchi e smarriti, come lo sono i profughi che, partendo, in viaggio indossano i migliori vestiti ma poi succede qualcosa per cui in tv vediamo corpi avvolti in coperte termiche. In fondo, tutti noi siamo solo nude vite.

Le tv davano altre notizie. Oltre ai due aerei di New York, un terzo, si è schiantato sul Pentagono e un quarto, dove i passeggeri si ribellarono ai dirottatori, è caduto. Il presidente Bush e tutta la leadership istituzionale degli States, è stata spostata «in luoghi sicuri», lo spazio aereo del Paese era chiuso, Manhattan, tagliata fuori dal mondo, i ponti chiusi. Bush, all’epoca, era reduce di una lunga vacanza, durante la quale si faceva fotografare mentre spaccava la legna o passeggiava per i boschi o pescava nei fiumi. Dopo il carismatico (per quanto coinvolto nella storia di una relazione illecita con una stagista) Bill Clinton, il nuovo presidente sembrava poco interessato alla politica internazionale, e anche la sua lunga assenza dalla capitale aveva un significato preciso: Washington con i suoi politicanti corrotti e maniaci sessuali è inutile, gli americani sono un popolo capace di autogovernarsi con onore e virtù, senza l’oppressivo potere statuale.

La sera stessa dell’11 settembre fu costretto a imparare in fretta le nozioni di geografia e geopolitica e promise vendetta contro l’Afghanistan, il Paese in cui i talebani ospitavano Osama Bin Laden, l’ideatore dell’attacco all’America. Più tardi alla lista si sarebbe aggiunto l’Iraq di Saddam Hussein. Intanto gli americani scoprivano l’Islam wahabita dell’Arabia saudita, e venivano a sapere che gli alleati sauditi non erano amanti della democrazia né della laicità e che anzi è da quel Paese che venivano gli ideatori degli attentati. Nelle tv non si parlava d’altro, e tutti erano sorpresi di scoprire che la dimensione religiosa fosse così importante in politica internazionale. Si entrava in un mondo nuovo, ma forse quell’universo si era già manifestato nel 1979, quando la religione fu il motore che portò al rovesciamento dello scià dell’Iran (così pensava il grande reporter Ryszard Kapuscinski), o forse la svolta arrivò con la guerra in Bosnia nei primi anni Novanta, dove si capì che la caduta del Muro di Berlino era foriera dei conflitti causati dall’ossessione identitaria.

New York cambiò volto. Nella città ferita la gente aiutava l’un l’altro. Si donava sangue, soldi per i feriti e per le famiglie deli morti, fondi per equipaggiare i pompieri assurti al rango dei nuovi eroi. Nella metropolitana le persone guardavano l’uno l’altro negli occhi, un gesto considerato fino al giorno prima, sconveniente e aggressivo. New York si faceva amare, suscitava sentimento di tenerezza e chiunque fosse allora lì, la considera da allora la sua città. Noi passanti, ci sorridevamo, ci scambiavamo segni di incoraggiamento per strada. Stare a Manhattan significava resistere. Quando riaprirono i ponti, presi il treno per andare a Princeton e fare un’intervista. Passato accanto al cratere del Ground Zero, dove c’erano le torri gemelle, nel vagone c’era silenzio: chi guardava le macerie, chi teneva gli occhi bassi, molti piangevano. Uscire dall’Isola, poi dava una sensazione sgradevole: di tradimento, di aver abbandonato una postazione da presidiare, anche se per poche ore, come lasciare un malato ricoverato in ospedale.

Nei giorni seguenti in tutte le finestre apparirono piccole bandierine a stelle e strisce, qualche volta candele in ricordo delle 2.997 vittime ufficiali degli attentati. In alcune vetrine dei negozi veniva esibito il manifesto di Norman Rockwell in cui l’artista illustrava le «quattro libertà» elencate dal presidente Franklin Delano Roosevelt nel 1941, mentre l’America si avviava alla guerra per sconfiggere il Male. Roosevelt diceva che ogni persona dovrebbe godere di «Libertà di espressione, Libertà di religione, Libertà dal bisogno e dalla miseria e Libertà dalla paura».

Poi, tutto mutò. I simboli di solidarietà, di fratellanza cambiarono di segno. Non si parlò più dell’America vittima ma degli States che avrebbero dovuto portare la democrazia nel mondo, sulla punta delle baionette. A vent’anni esatti da allora, guardando Kabul in mano ai talebani e con gli occidentali in fuga, sembra che la Storia abbia fatto un giro di 360 gradi.



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di Wlodek Goldkorn
espresso.repubblica.it
2021-09-10 09:31:00 ,

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