di Anna Lisa Bonfranceschi
Durante la pandemia di Covid-19 abbiamo imparato che si naviga a vista. Di fronte a un patogeno mai incontrato prima abbiamo avuto diverse incertezze e bisogno di tempo per conoscere diversi aspetti della malattia e i postumi dell’infezione. Pur con tutte le incertezze, e ammettendo una conoscenza in continuo divenire, sappiamo oggi con ragionevole certezza che l’infezione da Covid-19 può lasciare degli strascichi importanti.
L’abbiamo ribattezzata long Covid o sindrome post Covid-19 e tra le diverse definizioni disponibili è una condizione in cui si intende la persistenza o l’insorgenza di sintomi fisici e mentali per settimane o mesi dopo l’infezione acuta, con conseguenze sulle normali azioni quotidiane, sulla capacità di lavorare e studiare. Perché una delle poche cose che è chiara è che il long Covid può colpire chiunque, dai bambini agli anziani, con conseguenze sanitarie ed economiche importanti.
La definizione dell’Oms di long Covid
Va da sé che da tempo società scientifiche, istituzioni ed esperti richiamano l’attenzione sul problema e sono una miriade gli studi volti a comprenderne incidenza, manifestazioni, conseguenze, fattori di rischio. L’Istituto superiore di sanità, per esempio, ha appena presentato un progetto dedicato al tema, per mappare le dimensioni del problema, identificare i centri che se ne occupano, effettuare sorveglianza e condividere buone pratiche di gestione. Alcuni studi suggeriscono che i sintomi possono essere tantissimi, oltre duecento si stima: da mal di testa a nebbia mentale, poi stanchezza, dolori muscolari, difficoltà di concentrazione, dolori al petto, rash, cambiamenti di umore, singoli o raggruppati in categorie, come nella sindrome infiammatoria.
Perché alcuni ne soffrano e altri no non è chiaro: la carica virale, la presenza di auto-anticorpi, infezioni da virus Epstein-Barr e presenza di diabete possono essere tra i fattori di rischio. Ma al di là delle conoscenze accumulate sotto certi aspetti il long Covid è ancora difficile da definire. E difficile è separare i sintomi da tutti i possibili fattori confondenti e che potrebbero avere un’influenza, in primis gli effetti psico-sociali legati alla pandemia nel suo complesso o i ricoveri in ospedali, specialmente in terapia intensiva, ricordano i Center for disease control and prevention (Cdr) degli Stati Uniti, per esempio. Ma definire il long Covid non è una sottigliezza: è il primo passo per la gestione a lungo termine del problema.
Ci ha provato l’Organizzazione mondiale della sanità, di recente, raggiungendo un consenso che cita così: “Il post-Covid è una condizione che si verifica nelle persone con una storia probabile o confermata di infezione da Sars-CoV-2, di solito entro tre mesi dall’insorgenza di Covid-19 con sintomi che durano almeno due mesi e non possono essere spiegati da altre diagnosi. Sintomi comuni sono la fatica, il fiato corto, disfunzioni cognitive ed altro [e rimanda a un approfondimento in materia, nda] che solitamente hanno un impatto sulla vita quotidiana. I sintomi possono essere di nuova insorgenza, seguire un iniziale recupero da infezione acuta di Covid-19 o persistere dall’inizio della malattia. I sintomi possono anche fluttuare o tornare nel corso del tempo. Una definizione distinta può essere applicabile nei bambini”.
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www.wired.it
2022-02-12 16:00:00