Mezzogiorno, 3 giugno 2022 – 08:59
di Aldo Schiavone
Più passa il tempo, più emerge con chiarezza che tra il presidente della Regione e il sindaco di Napoli è in corso una specie di partita a scacchi, dura, coperta e silenziosa, che ha per posta il futuro e il potere. È un gioco dagli esiti francamente imprevedibili. Una cosa già appare chiara, però: comunque andrà a finire, il vincitore non sarà né Napoli né la Campania, che avrebbero bisogno invece di tutt’altro, per uscire da una condizione che si fa ogni giorno più grave: di aperta solidarietà fra le istituzioni (di sinergie, come ora si dice), di strategie comuni, di disegni unitari, di visioni condivise alla luce del sole. Del «caso De Luca» si è fin troppo parlato, e lo si farà ancora, senza dubbio: e i motivi non mancano. Temo però che questo concentrarsi sulla figura pubblica del presidente – che di certo attira, con il suo studiatissimo folklore, molti sguardi e molta attenzione – si perda di vista il contesto che ha reso possibile questa specie esplosione personalistica della carica ricoperta, e che in certo senso continua a premiarla. Mi riferisco in particolare a due aspetti di sistema, entrambi con forti connotati locali: la disintegrazione dei partiti nel Sud del Paese, e l’aumento delle diseguaglianze come connotato della vita sociale e civile del Mezzogiorno. La crisi dei partiti è un fenomeno che, come si è infinite volte ripetuto, riguarda tutta l’Italia, e in qualche modo – sia pure con alcune significative eccezioni – l’intero Occidente.
Ma nel nostro Meridione essa sta avendo un effetto peculiare e singolarmente devastante. Ha cioè fatto riemergere con prepotenza un fenomeno di «feudalizzazione» della politica e del consenso che era stato da sempre un tratto della vita pubblica del Mezzogiorno, ma che la democrazia della prima repubblica era riuscita in qualche modo ad attenuare e a contenere, anche se mai davvero a sradicare (basta pensare a Lauro e ai Gava), imbrigliandolo appunto, e raffrenandolo, entro le reti dei partiti. Non ho nessuna particolare nostalgia per quel mondo ormai finito, ma pure sono convinto che il vecchio sistema dei partiti abbia veicolato nel suo insieme – dai comunisti ai socialisti, ai repubblicani, alla stessa democrazia cristiana – quasi tutto di quel tanto di democrazia di massa che il Mezzogiorno è riuscito a sperimentare in tutto il corso della sua storia. Conclusa quella stagione, l’impronta feudale sulla politica meridionale è riaffiorata in tutta la sua evidenza: dalla Campania alla Calabria, alla Puglia, alla Sicilia. Dove essa non ha incontrato personalità forti – come per esempio in Calabria, o nella stessa Sicilia – quella che potremmo chiamare la tendenza a ridurre la politica a un dispositivo padronale-clientelare ha prodotto una specie di nuovo «feudalesimo senza soggetto», che si esprime attraverso una rete relativamente diffusa e apparentemente anonima di circuiti di spesa e di centri di potere, che fa blocco intorno alla difesa con ogni mezzo dei propri interessi. Dove invece, come in Campania, quell’impronta feudale sulla politica ha incontrato una personalità senza dubbio dotata e votata al comando, essa ha creato il «fenomeno De Luca»: una forma moderna e spericolata di feudalità aperta al popolo per così dire, in cui il vecchio e il nuovo – antiche degenerazioni e dipendenze del tutto inedite – si mischiano in un impasto micidiale e asfissiante. Stupisce perciò tanto più, e scoraggia, il silenzio del Pd e di Enrico Letta di fronte alla questione del terzo mandato.
Perché, in verità, c’è ben poco da studiare o da riflettere. Anche anche al di là di ogni forma di rispetto per la sostanza della nostra Costituzione, quel che viene qui in causa è né più né meno che la possibilità per il Pd di sopravvivere come partito meridionale, di resistere in qualche modo come argine democratico a una altrimenti inarrestabile deriva personalistica della politica: che è un nodo soprattutto merdionale, ma non solo merdionale. Che c’è ancora da valutare? C’è solo da scegliere da che parte stare. C’è poi la questione delle diseguaglianze. E non mi sto riferendo alle diseguaglianze individuali, ma a quelle, chiamiamole così, «ambientali», o strutturali e di contesto, che rendono l’intero Mezzogiorno il luogo per eccellenza della disparità repubblicana. Diseguaglianze determinate dalla peculiare inefficienza delle Pubbliche Amministrazioni meridionali (le ha appena denunciate ancora una volta il governatore Visco); diseguaglianze nella gestione della sanità rispetto alle regioni del Nord; diseguaglianza (appena accertata: Napoli è all’ultimo posto) nel realizzare la cosiddetta «svolta green»; diseguaglianze che le giovani generazioni meridionali avvertono rispetto a quelle del resto del Paese quando si tratta di progettare il proprio futuro; diseguaglianza nella sicurezza e nella gestione quotidiana della legalità.
Ebbene, come non vedere che la percezione diffusa di questo stato di minorità permanente – che crea, di fatto, un doppio popolo italiano, con due cittadinanze – favorisce in modo massivo non certo un’educazione alla democrazia, le cui premesse vengono mille volte smentite dai fatti, ma piuttosto l’abbandonarsi «feudale» a un capo più o meno carismatico – anche il piccolo carisma di strapaese, nutrito di sberleffi e di apparenti insubordinazione alle regole – e alle sue reti di protezione. Un capo capace, in un immaginario collettivo sempre più diseducato alla pratica democratica, di riscattare dalla condizione discriminata in cui ogni giorno ciascuno rischia di affondare perché almeno lui «le sa dire ai potenti». È dunque a questo – alla morte della democrazia intorno a noi – che dobbiamo arrenderci? È questo quel che ci aspetta?
3 giugno 2022 | 08:59
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