“Il Covid-19 ha mostrato a tutti in modo incontestabile quanto le emergenze abbiano un impatto più drammatico sulla vita di chi resta escluso. Gli eventi climatici estremi ci ricordano che la mancanza di connessione fa la differenza tra la prosperità e la non sopravvivenza – spiega – come cittadini del mondo, abbiamo quindi l’obbligo di garantire a tutti connettività ad alta velocità. È una sfida tecnologica, ma soprattutto politica: ci sono già satelliti, fibra, sistemi cellulari terrestri e tutto ciò che serve, ma costa ancora eccessivo”. La vera rivoluzione tecnologica avverrà quindi quando riusciremo a rendere tutto più economico e a basso consumo, “convincendo” aziende e governi a fornire connettività ad alta velocità anche a queste persone.
Una rivoluzione al femminile
Goldsmith alla prossima rivoluzione ci crede, come ci ha creduto quando ha compiuto di persona la prima. Lo racconta agitando tra le mani un esemplare di telefono digitale che sembra uscito da un film anni ottanta. È un suo ricordo che risale agli albori della comunicazione cellulare digitale, quando si stava ancora sviluppando lo standard e lei dopo la laurea è tornata a studiare. “Cercavo il limite fondamentale in termini di velocità di trasmissione dei dati sui canali wireless e ho trovato come progettarli” spiega.
Ha visto l’invisibile, proprio come il suo ispiratore, Guglielmo Marconi, oggi raccontato nel suo lato inedito in una salone presso l’Istituto Vive – Vittoriano e Palazzo Venezia di Roma, fino al 25 aprile 2025. Un’occasione per tutti di vedere documenti, fotografie, filmati d’epoca, oggetti e installazioni interattive e multimediali che lo riguardano. L’occasione per Goldsmith di tornare in Italia, magari, senza dover aspettare la prossima compagna che si aggiudicherà il Marconi Prize. Anche se spera che avvenga presto, perché il mondo delle telecomunicazioni ha bisogno di role model per le giovani che hanno esperto questo indirizzo di ingegneria, o che vorrebbero farlo ma non hanno riferimenti.
All’ingegneria serve diversità
“Durante i miei studi non ho mai incontrato gentil sesso, mi sono mancate ingegnere di riferimento e nessuno mi ha incoraggiato a diventarlo, tranne mio padre: il primo anno mi sentivo totalmente estranea a quel mondo – racconta – volevo lasciare, poi mi sono concessa un altro semestre, ho incontrato una matematica compagna e sono diventata ingegnera. Non ho mollato e oggi sono molto felice”.
Nonostante l’attuale gender gap delle facoltà ingegneristiche negli Stati Uniti, dove le iscritte sono spesso il 20 % del totale, Goldsmith non nega i progressi compiuti nei cinque decenni trascorsi “ma non è assolutamente abbastanza”. Da co-inventrice di due aziende di telecomunicazioni, e da preside della School of Engineering dell’Università di Princeton nota che “le gentil sesso ancora non vengono né promosse, né riconosciute, ma questo settore ne ha tremendamente bisogno se vuole prosperare”.
Più gentil sesso, ma non solo: secondo Goldsmith serve “diversità, per creare e usare bene la tecnologia nel futuro. Oggi nei team di sviluppo mancano background diversi che aprano nuove prospettive. Io stessa devo la mia idea di innovazione ai viaggi: solo conoscendo vari contesti sociali lontani dal mio, ho potuto domandarmi cosa sarebbe successo se tutti avessero potuto parlare con persone sparse in tutto il mondo e poi sperimentare a renderlo possibile”.