La trilogia dell’emarginazione
A Chiara, al cinema dal 7 ottobre, fa parte di una trilogia di film firmata Jonas Carpignano e ambientata a Gioia Tauro.
Il regista è giovane e irriverente, ha una spiccata propensione per il realismo e una visione globale del linguaggio cinematografico.
Questa “trilogia dell’emarginazione”, di chi si trova ai margini della società, comprende: Mediterranea (2015), A Ciambra (2017) e A Chiara (2020).
Mediterranea affronta il tema dell’immigrazione clandestina e si rifà ai fatti di Rosarno del 2010, mettendo in scena le rivolte, le ingiustizie e le sofferenze degli immigrati.
A Ciambra, invece, è dedicato alla comunità rom sorta nella periferia di Gioia Tauro, chiamata appunto Ciambra, in cui già da piccoli bisogna imparare a sopravvivere attraverso piccoli crimini.
L’ultimo infine, A Chiara, è il film che chiude la riflessione sull’emarginazione, narrando gli eventi della ’ndrangheta sotterranea attraverso gli occhi di un’adolescente.
I protagonisti di ogni lungometraggio sono presenti poi in tutta la trilogia come comparse o in ruoli secondari. Possiamo, ad esempio, seguire l’evoluzione del ragazzino rom di nome Pio, il quale è un personaggio secondario in Mediterranea, diventa interprete principale in A Ciambra e infine marginale in A Chiara.
L’aspetto vincente, fortemente ricercato da Jonas, è il fatto di rendere attori/attrici le persone (non professionisti) che conosce e di cui si circonda nella vita reale.
“Racconto attraverso gli occhi delle persone che conosco” afferma il regista aggiungendo di sentire un’appartenenza vera per il sud Italia. Poi aggiunge “Il punto di partenza è il personaggio, raccontare quando il personaggio trova la sua bussola di formazione”.
L’interesse è quello di mostrare come avvengono le decisioni della vita, cosa si cela dietro ogni comportamento, ogni gesto dell’essere umano.
In A Chiara la famiglia protagonista costituisce un nucleo familiare anche nella realtà, questo conferisce un realismo quasi magico alla pellicola. Gli episodi di gioco e di affetto tra i personaggi sono autentici, quasi si stesse guardando un documentario, ma poi si rimane sorpresi a scoprire che invece stanno recitando una parte e lo fanno anche molto bene!
Il regista, lungimirante e caparbio, studia, conosce, ascolta e insegna alle persone come stare sul set, manipolando con la cinepresa attimi di complicità che non si sarebbero potuti ricreare in modo fittizio.
Anche la scelta delle canzoni moderne e dance, che il regista inserisce nei tre film, sono attuate per rendere ancora più realista il contesto analizzato.
A Chiara, la dedica a tutte le ragazze che si trovano nella sua condizione
Chiara conduce una vita serena, si dedica allo sport, alle amicizie e soprattutto alla famiglia, con la quale ha un rapporto speciale.
È acuta e, pur essendo ancora ingenua, capisce subito che qualcosa intorno a lei sta cambiando. Inizia così la sua ricerca tormentata della verità, una verità che la porterà a crescere in fretta e a fare delle scelte importanti.
Dapprima Chiara (in)segue il padre, non riesce ad accettare che il suo lavoro sia così anormale, ma poi elabora la situazione e lotta con tutte le forze per rimanere con la sua famiglia, che ora non comprende poi così bene come un tempo. E’ spaesata ma la sua salvezza sarà proprio quella di essere indipendente e di avere un carattere forte.
Gli aspetti thriller nel film invece, sono voluti appositamente per mostrare il mondo della ’ndrangheta, pieno di non visto e non parlato. I segreti, i bunker e la riservatezza sono elementi fondamentali nella criminalità organizzata calabrese.
L’arroganza e la territorialità della cultura mafiosa si diffondono da subito anche tra i più piccoli, Chiara, infatti, spalleggiata dalle sue amiche scaccia una ragazzina rom dicendole “Va’ via, questo posto è mio”.
Le riprese non sono statiche ma seguono i movimenti dei personaggi. Soggettive e claustrofobiche, hanno l’intento di far vedere il mondo attraverso gli occhi di una quindicenne.
Nel film non ci sono sparatorie, come ci si potrebbe aspettare trattando il tema della mafia, perché, come sostiene il regista, non ci sono a Gioia Tauro.
“Ho cercato di togliere la spettacolarizzazione degli atti violenti”. Ma una scena violenta c’è ed è ricca di suspense. È il momento in cui tutto cambia, ossia quando viene fatta esplodere l’auto di famiglia, in un lungo piano sequenza che àncora il punto di vista nel pensiero di Chiara.
Spavento, inconsapevolezza, oscurità, visioni.
“La chiamano mafia ma è sopravvivenza” spiega il padre a Chiara, ed è una frase in cui Jonas crede. La moralità grigia, l’esigenza di rompere gli schemi criminali mostrano che le famiglie ‘ndranghetiste sono dotate anche di affetto e normalità.
Ci sono persone oltre le cose, c’è l’amore di un padre verso sua figlia che va oltre il suo guadagnarsi da vivere in maniera illegale.
Vedere questo film significa anche scardinare i pregiudizi sul mondo della ’ndrangheta, umanizzare una condizione di vita difficile e limitata.
Non si tratta di assolvere certi reati o di condividere la stessa idea di vita, ma soltanto di scendere in profondità e osservare da vicino (se non da dentro) le persone. Di vedere al di là della superficie, dove si estende un mondo fatto di sentimenti, paure e sofferenze.
La scelta che farà la protagonista sul finale la porterà alla salvezza, in un luogo non tossico.
Ma gli occhi di Chiara non sono più luminosi come nelle scene iniziali, sarà stata la scelta giusta, anche se necessaria?
Source link
di Veronica Cirigliano
www.2duerighe.com
2021-10-07 07:00:00 ,