Da questo discendono altri problemi: la Corte europea dei diritti dell’uomo ha stabilito che, anche se quella porzione di territorio sarà amministrata dall’Italia, l’Albania sarebbe comunque responsabile per eventuali violazioni dei diritti umani a Gjader. A sostegno della tesi, i ricorrenti richiamano dichiarazioni dell’Alto commissariato per i rifugiati dell’Onu, della commissaria per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Dunja Mijatovic, e rapporti di ong come Amnesty International e Human Right Watch. “Eravamo sicuri che le violazioni dei diritti umani fossero insite nella struttura dell’accordo”, spiega Logu, che era certo di vincere: “Atti simili sono stati considerati illegittimi, in passato”.
Invece, il 29 gennaio 2024 arriva la doccia fredda: la Corte Costituzionale albanese, dopo una sessione a porte chiuse, respinge il ricorso e rende operativo l’accordo. “Cinque voti a quattro – commenta amareggiato Logu -. Per noi è stato un duro colpo, che temo abbia conseguenze anche per il futuro dell’Albania. Siamo un membro della Nato e ci candidiamo a entrare nell’Unione europea. Diritti umani, democrazia e Stato di diritto ci stanno a cuore, non possiamo diventare lo spauracchio per i migranti che vogliono venire in Europa”.
Opposizione in piazza
In parallelo si muove la protesta di piazza. Finora senza grandi risultati. “La gente è disillusa: sanno che Rama rivincerà le elezioni e nulla cambierà. Quindi che senso ha per loro protestare?”, dice Edison Lika, uno dei maggiori contestatori. Edison e altri attivisti hanno parlato fin da subito con la cittadinanza di Gjader. Hanno raccolto firme contro il centro e le hanno inviate al Parlamento. Ma di nuovo, l’unica risposta è stata il silenzio: “Erano migliaia, ma nessuno ha mai risposto”.
Da quel momento, è iniziata la protesta. A giugno, quando la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha visitato i centri di Shengjin e Gjader, Edison e un’altra attivista, Arlinda Lleshi, sono saliti su uno dei balconi di Shengjin e hanno issato uno striscione: “Italia-Albania. Novembre 2023 come aprile 1939”. Il riferimento era all’invasione dell’Italia fascista durante la Seconda guerra mondiale. I due sono stati condotti nel commissariato di Shengjin. “La polizia ci ha trattenuto per sei ore. Continuavano a chiederci ‘Perché fate questo? Chi c’è dietro di voi?’. Non c’è proprio nessuno, protestiamo unicamente contro un accordo non democratico”, spiega Edison. “Spesso la polizia ci dà ragione quando protestiamo, molti poliziotti non condividono il protocollo – dice Sidorela Vatnikaj, un’altra attivista -. È per accordi come questo che il sogno europeo in Albania è in crisi. Pensavamo che l’Unione europea difendesse chiunque, a prescindere da ragioni di calcolo politico. Ma ora iniziamo a dubitare che tutto ciò che viene dall’Europa o dal mare sia per forza positivo”.
Il monitoraggio di media e ong
La politicizzazione dei media e di concentrazione delle proprietà rendono difficile l’emergere di voci giornalistiche indipendenti. E chi ci prova, come Kristina Millona, accademica e giornalista d’inchiesta, lo fa con enormi difficoltà. Per esempio racconta di aver appreso dell’apertura dei centri in Albania dalle testate italiane. “Alcuni media governativi hanno ricevuto un invito e hanno fatto una visita il primo giorno. Ma io sono indipendente, nessuno mi ha detto nulla – racconta -. L’hotspot è chiuso ermeticamente. Tante volte persino la polizia albanese, che dovrebbe organizzare gli spostamenti, riceve ordini dagli italiani all’ultimo minuto”.
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di Delia Cascino, Camillo Cantarano www.wired.it 2024-11-23 11:54:00 ,