All’Italia non serve un de Gaulle: basta la normalità democratica

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«Sto da 30 anni al Bundestag, che è il cuore della democrazia: dove, se non qui, devono essere discussi questi temi?». Martedì 7 settembre nell’aula del Parlamento federale tedesco è andato in scena uno spettacolo politico di primo livello. Era in programma il discorso di congedo di Angela Merkel nell’aula della Camera che per sedici anni l’ha eletta alla guida del governo. La cancelliera è abituata a muoversi «millemetrically», scrive Paolo Valentino nella sua bella biografia pubblicata da Marsilio, con spostamenti minimi in avanti, in tutta Europa è già rimpianta come modello di leadership e di stabilità politica. Ma quando ha attaccato l’ipotesi che dal voto del 26 settembre possa uscire un governo di sinistra Spd-Verdi-Linke e ha lanciato un appello per la Cdu-Csu del successore Armin Laschet, «per guidare il nostro paese nel futuro con moderazione», dai banchi dei partiti avversari sono partiti i fischi e le contestazioni. Così la Merkel ha regalato un’altra lezione politica, proprio mentre sta uscendo dalla cronaca per entrare nella storia: si può essere statisti e di parte, si può lavorare per il bene comune, ma con un’idea autonoma, si può discutere di elezioni nel Parlamento che è il cuore della democrazia, e dove altrimenti?

Nelle stesse ore, nella Camera italiana, si trascinavano stancamente le votazioni sul decreto sul green pass, in un clima surreale. La Lega di Matteo Salvini, partito di governo, di buon mattino ritirava i suoi emendamenti al testo del decreto e sul far della sera votava per quelli di Fratelli d’Italia, partito di opposizione. E si poteva misurare la distanza che c’è tra i due paesi. La Germania è un paese in cui si avvicina il voto e la donna più potente d’Europa si batte per evitare la sconfitta del suo partito: una democrazia sana. In Italia, invece, per evitare la catastrofe del sistema sette mesi fa il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha chiamato alla guida del governo un uomo fuori dalle istituzioni elettive, l’ex presidente della Bce Mario Draghi, che esercita la sua leadership non contro i partiti, ma forse senza i partiti e certamente oltre i partiti: una democrazia da curare. Da un lato un Paese alla vigilia del momento magico, quando può scattare l’alternanza di due schieramenti al governo, ancora più significativa, dato che la Germania viene da quindici anni di maggioranze di grande coalizione, con qualche interruzione. Dall’altro, un dibattito politico che da mesi si avvita in modo bizantino su una questione di cui tutti parlano e nessuno discute. Draghi sarà eletto al Quirinale tra quattro mesi e sarà necessario trovare un altro presidente del Consiglio oppure il governo andrà avanti fino al 2023, scadenza naturale della legislatura, e bisognerà convincere Mattarella ad accettare un secondo mandato presidenziale?

Tutto questo avviene senza un dibattito tra le forze politiche, che ripetono anzi non è il momento, e nel Paese e nell’opinione pubblica. Stiamo vivendo l’evoluzione del sistema in senso semi-presidenziale, ne hanno scritto negli ultimi giorni Sabino Cassese e Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera.

L’Espresso ne ha cominciato a parlare tre mesi fa segnalando che tutto questo avviene nel silenzio e nell’anestesia. Della svolta più importante non si discute, né nel Parlamento «cuore della democrazia» (Merkel dixit), dove ci si accapiglia sul green pass, né sui giornali, né tra i partiti e nella società civile.

Si possono demonizzare Draghi e anche Mattarella, come fanno i fogli orfani di Conte, ma la verità è che sono pasolinianamente i “meno implicati” di tutti in questa situazione. Stanno reggendo lo Stato in un momento difficile, mentre in Europa si torna a parlare di patto di stabilità. E il premier decide anche in campi lontani dal suo percorso di banchiere centrale. La scelta di impegnarsi in prima persona sulla vertà sulle stragi degli anni Settanta, per dare impulso alla descretazione delle carte su Gladio e P2, è un atto che soddisfa le richieste delle associazioni dei parenti deli morti, di grande valore politico, in un Paese in cui alcuni presidenti del Consiglio usavano ostentare la loro indifferenza, se non peggio.

La sconfitta della politica arriva da lontano, come racconta Arturo Parisi, una delle intelligenze politiche più razionali e visionarie e meno ascoltate di questi trent’anni. Il sogno di una democrazia dell’alternanza, con i cittadini chiamati a scegliere il governo nelle urne tra partiti, programmi e leadership da far vivere nella società e non soltanto nel mese della campagna elettorale, si è infranto sulla resistenza di partiti sempre più deboli e sempre più attaccati al loro scoglio. Senza neppure rendersene conto, hanno fatto il gioco di centri di potere economici e finanziari, lobby, corporazioni, apparati, che hanno sempre puntato su una politica incapace di decidere, senza rappresentanza e legittimazione popolare.

Il voto di un anno fa, il referendum sul taglio dei parlamentari, ha rappresentato un momento simbolico. In mezzo alla pandemia, e nel tripudio generale, la politica accettò di mutilare un pezzo di Parlamento, senza recuperare un granello di autorevolezza, anzi. Nessuna delle riforme che si considerarono necessarie per accettare il taglio di deputati e senatori sono state neppure abbozzate, a partire da una nuova legge elettorale.

Gli effetti si vedono. La campagna per le elezioni amministrative arranca, mette in luce soprattutto l’inconsistenza dei progetti per le città e delle candidature. Susanna Turco indaga sul mistero Michetti a Roma. Un candidato semi-fantasma cui la destra maggioritaria nei sondaggi nazionali ha affidato il compito di conquistare il Campidoglio. L’enigma non è la personalità del candidato, ma la stanchezza, direi la rassegnazione, con cui Giorgia Meloni e Matteo Salvini affrontano una battaglia da cui potrebbe dipendere l’esito della legislatura e dei futuri mesi della politica italiana. Se Michetti dovesse vincere a Roma, la destra potrebbe rivendicare l’elezione di un “suo” presidente della Repubblica, come non è mai successo da quando è venuta giù la Prima Repubblica, i trent’anni cominciati con l’elezione di Oscar Luigi Scalfaro al Quirinale, e poi chiedere le elezioni anticipate. Ma l’impegno messo nella competizione, per ora, sembra smentire questo proposito. Quel che si vede, semmai, è l’assenza di una classe dirigente locale, una rete di civismo in grado di affiancare la politica. I candidati civici di Roma e di Milano destano imbarazzo più che preoccupazione, se dovessero vincere hanno già dichiarato cosa faranno: nulla.

Molto più voglioso di agire il candidato Paolo Damilano a Torino, ma la questione non cambia. Tra la frustrazione di Salvini, in discesa, e l’attesa sorniona della Meloni, nessuno dei due sembra poter aspirare alla regia della coalizione. Lo stesso accade, sul versante opposto, per Giuseppe Conte.
Così, incredibilmente, la strada della riforma del sistema incrocia ancora il Pd, nella versione guidata da Enrico Letta.

Nel 2012, quando a Palazzo Chigi con una maggioranza di unità nazionale c’era Mario Monti, il Pd di Pier Luigi Bersani sprecò l’occasione di cambiare il sistema politico. Nessuna nuova legge elettorale, nessuna riforma del sistema politico, il Pd pensò solo ad aspettare la data del voto, Bersani era sicuro che la vittoria gli sarebbe arrivata tra le mani, «il consenso è come una mela dall’albero, bisogna scuoterlo e avere un cestino che le raccolga tutte», teorizzava. Finì malissimo, il Pd non-vinse le elezioni, arrivarono i parlamentari dei 5 Stelle e il Pd fu espugnato da Renzi: i compagni di Articolo Uno che oggi vanno a braccetto con i Ghostbutsers del Fatto non hanno mai affrontato la responsabilità di quel disastro.

La differenza è che oggi Enrico Letta non ha nessuna vittoria in tasca ed è obbligato a muoversi. Su due fronti. Il partito: se il Pd dovesse superare bene le forche caudine del 3 ottobre, il giorno del voto amministrativo in cui il segretario si gioca tutto nel collegio alla Camera di Siena, Letta avrebbe le condizioni per cambiare il Nazareno con una sua squadra, una sua classe dirigente sui territori e a Roma. I sei nomi scelti per fare da garanti alle agorà del Pd, le riunioni di iscritti e elettori dei prossimi mesi (Elly Schlein, Carlo Cottarelli, Annamaria Furlan, Monica Frassoni, Gianrico Carofiglio, Andrea Riccardi), sono il volto del partito futuro. Più la rappresentanza dei territori, che non può essere lasciata solo ai signori della guerra del Sud Vincenzo De Luca e Michele Emiliano. Se dovesse continuare la schermaglia interna tra i vecchi e i giovani ideologi che vogliono rifare i Ds e i capicorrente che vogliono rifare la Margherita, Letta avrebbe l’arma da fine del mondo: convocare un congresso e contarsi.

La seconda responsabilità del Pd, più importante, è verso il sistema. La politica italiana si avvia alla corsa per il Quirinale senza un regista, un personaggio non dico paragonabile a quello che fu Aldo Moro negli anni Sessanta-Settanta, ma neppure a Ciriaco De Mita con Francesco Cossiga negli anni Ottanta o a Renzi con Mattarella sette anni fa. A meno che non si regali questo ruolo di nuovo all’ex sindaco di Firenze, nel frattempo finito per fare il capo di un partitino. Senza candidati e senza registi la corsa per il Quirinale non parte, o finisce male. Anche in questo caso tocca al Pd intestarsi la responsabilità di una scelta o di una disfatta. E poi, una volta deciso il nome per il Quirinale, spendere la parte finale della legislatura sulla riforma della politica, per impedire che la prossima legislatura non assomigli a questa, anzi peggio, e sia affine a quella immagine che ci arriva dal Bundestag. Un conflitto politico che non si sopisce, una classe dirigente che non si addormenta, non si arruola dietro la scia di un messia da tradire, una donna che si batte per la sua idea, affronta le contestazioni, lascia per l’ultima volta il Bundestag dei suoi trionfi. Non serve un de Gaulle per l’Italia, di eccezionalismo si muore, basta la normalità democratica e la forza tranquilla di Angela Merkel.



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di Marco Damilano
espresso.repubblica.it
2021-09-13 15:29:00 ,

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