Aspettando Liberazione – L’Espresso

0


Riapertura. Ripartenza. Ripresa. Resilienza. Quante erre spese in questo 25 aprile che anticipa il 26, giorno di ritorno alla maggior parte delle attività nelle regioni gialle d’Italia e che segue di poche ore l’approvazione da parte del Consiglio dei ministri del Pnrr, il Piano nazionale di ripresa e di resilienza.

Manca la erre di Resistenza, perché l’unità nazionale asciuga le divisioni politiche, almeno in apparenza, dei Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni non sappiamo ma forse perfino Matteo Salvini questa volta si accorgerà che è la festa della Liberazione dal nazifascismo. Festa di popolo, festa della Costituzione repubblicana che fu scritta,votata e firmata due anni dopo ma si fondò in quei giorni, come ci hanno tramandato Piero Calamandrei, Sandro Pertini, Tina Anselmi.

Un anno fa L’Espresso raccontò la storia di Giorgio Allori, un soldato italiano deportato dai tedeschi nei campi di prigionia, insieme a centinaia di migliaia di nostri connazionali che avevano rifiutato di tradire la Patria e di giurare fedeltà al fascismo, con il suo quaderno dalla copertina azzurra in cui aveva annotato i trasferimenti, la pianta delle baracche, i pochi grammi di pane come razione, i sogni di cene nei ristoranti più famosi. Allori ha compiuto 99 anni (è nato il 4 febbraio 1922), ha ricevuto la medaglia d’onore della Repubblica e il presidente Sergio Mattarella lo ha nominato commendatore con un messaggio in cui ricorda «il suo impegno e la sua sofferenza in difesa della libertà in Italia».

In questa domenica 25 aprile ripercorriamo con Susanna Turco i luoghi della Resistenza di Roma fotografati da Daniele Molajoli, mentre il Paese prova a entrare in una difficile nuova fase: la erre di Ricostruzione o di Ri-sorgimento, come l’ha definito il gesuita padre Francesco Occhetta sul sito Comunità di connessioni (il 10 aprile), quel momento che Mauro Biani poeticamente disegna per la copertina dell’Espresso di questa settimana. Il fiore del partigiano, morto per la libertà, che passa il testimone ai nuovi italiani del nostro tempo, alla nuova generazione. Dirla così significherebbe restituire a Next Generation Eu il suo valore originario, strappare il piano straordinario dei fondi europei alla deriva burocratica di questi mesi.


Le metafore sulla nuova Liberazione si sono sprecate, ma nessuna retorica è possibile. Non c’è Liberazione in questi giorni, quando in molte zone del Paese si continua a morire di Covid-19 e un abitante su due vive di sussidi. Azzardare paragoni significa tradire il passato e anche il tempo presente.
Per passare questo momento è nato il governo di Mario Draghi. Nella drammatica sera del 2 febbraio, appena svanita la possibilità di un terzo governo di Giuseppe Conte, Mattarella affidò l’incarico all’ex presidente della Banca centrale europea con due compiti: affrontare la doppia emergenza sanitaria, con la campagna di vaccinazione, e economica, con la tutela sociale per lavoratori e imprese a rischio, e presentare a fine aprile alla Commissione europea il Piano di utilizzo dei fondi straordinari deciso un anno fa. La crisi del governo Conte due era cominciata da lì, dalla difficoltà di scrivere il piano e dal rigetto della struttura di governance ipotizzata dall’avvocato-premier, la piramide di manager e tecnici con al vertice lui.
A quasi tre mesi, in questi giorni, arriva il decreto sulle riaperture del 26 aprile di negozi, ristoranti, palestre, cinema, teatri e soprattutto le scuole di ogni ordine e grado, il «rischio ragionato» di Draghi, mentre la campagna di vaccinazione va avanti con qualche segno di accelerazione, ma ancora lontana dall’obiettivo di mezzo milione di dosi somministrate al giorno. E poi il Piano approvato dal governo e presentato alle Camere, prima di approdare in Europa. E un nuovo decreto di sostegno alle imprese da 40 miliardi.

Tutto in pochi giorni, per rispondere alla domanda formulata anche dalla rivista Limes (numero 3/2021): a che serve Draghi. Una questione che ne chiama altre con sé: quanto dura il governo, che orizzonte temporale ha, qual è la natura della missione, il suo carattere politico. Per qualche settimana il presidente del Consiglio è apparso in una condizione simile a quella immagine ripresa da un curioso, in piedi in mezzo al traffico fuori dalla sua macchina blindata, alle prese con un tamponamento.

Anche il sistema politico sembra così. Affollato e esausto. Il capo del primo partito nei sondaggi, Salvini della Lega, è costretto a rivendicare a ogni passo che le aperture delle saracinesche sono merito suo, per dare un senso alla sua partecipazione nella maggioranza. Il garante del primo partito del Parlamento votato nel 2018, Beppe Grillo del Movimento 5 Stelle, è in un cupio dissolvi a scoppio ritardato per le conseguenze dell’inchiesta per stupro di gruppo che coinvolge il figlio, originata dalla denuncia di una ragazza di Milano nell’estate 2019. Estate cruciale, di svolta politica, perché nei giorni successivi alla notte di Porto Cervo e alla denuncia cadde il governo Conte uno, Salvini puntò alle elezioni ma andò a sbattere contro la svolta di M5S che passò dal “mai con il Pd, il partito di Bibbiano” al governo con il Pd deciso in un vertice a casa di Grillo a Marina di Bibbona, speculare al cambio di linea del partito di Largo del Nazareno dove Matteo Renzi anticipava ancora la linea. Abbiamo appreso oggi, non dai giornali, come sostiene Grillo, ma dalla sua viva voce, che tra Bibbiano e Bibbona c’era Tempio Pausania, la procura dell’inchiesta.

Il fantasma che per due anni ha turbato le notti del fondatore del Movimento, uno dei potenti d’Italia, l’Elevato, l’uomo che si è arrogato il diritto di far partire il governo Conte due e poi il governo Draghi: non la responsabilità di accertare la verità, il minimo che si deve di fronte a una ragazza che denuncia una violenza di gruppo, ma il tentativo di cancellare tutto agli occhi dell’opinione pubblica. Grillo ha confermato così di essere una maschera familista e amorale, lo specchio del principale vizio nazionale, che è l’irresponsabilità, l’impossibilità di farsi carico delle proprie azioni, la fuga.

L’ex premier Conte ha compiuto la sua difesa d’ufficio e una timida presa di distanza, mentre si consumava la faida tra i parlamentari 5 Stelle e la Casaleggio Associati. Ma la frana dei 5 Stelle priva anche il Pd di Enrico Letta dell’alleato privilegiato. L’imbarazzo di Conte diventa quello dei dirigenti del Pd, nell’incapacità di trovare le parole normali, usate delle persone comuni, che possano tracciare un abisso umano, prima che politico, dal triste e lugubre ultimo show di Grillo.

L’ingorgo in cui si è trovato Draghi, però, non è soltanto quello dei partiti che non ci sono. È istituzionale, riguarda lo Stato in tutte le sue articolazioni. Lo Stato centrale, con la pubblica amministrazione in affanno. Il Parlamento e il governo. Le regioni, nell’anno della pandemia che costringerà a ripensare integralmente venti anni di federalismo (la riforma del titolo V del 2001, approvata durante la seduta finale della legislatura e confermata in autunno dal referendum, voluta dal centrosinistra allora al governo). La giustizia, con la magistratura agli occhi dei cittadini al minimo storico di autorevolezza e di efficienza, come scrive Massimo Cacciari sull’Espresso (con l’inchiesta di Paolo Biondani). Il sistema economico, pubblico e privato, travolto dalle misure di contenimento degli effetti sociali del Covid-19. Il sistema industriale che deve ripensarsi, nel suo rapporto con la transizione ecologica (Vittorio Malagutti e Gloria Riva ci raccontano l’Ilva questa settimana).

Draghi è stato chiamato alla guida del governo come massimo esponente di un sistema, italiano, europeo e occidentale, che nella sua dimensione nazionale e nelle sue relazioni internazionali va ricostruito. È troppo pragmatico, e anche cinico, per intestarsi la Grande Riforma, come fecero (a parole) i comunicatori che lo hanno preceduto alla guida del governo, a partire da Renzi. Se si chiede agli uomini di Palazzo Chigi di dire una parola sulla riforma dello Stato si ottiene una reazione di stupore. Se il governo dura fino al 2023 è improbabile che si faccia, se dura fino al 2022 è impossibile.

È il fattore tempo che potrebbe allontanare il premier dal Quirinale. Draghi rischia così di essere «un capo sistemico dotato dei mezzi d’un capo ordinario assediato dalle stolte aspettative di chi lo vorrebbe “Messia”. Responsabilità massima, poteri minimi, attese sinceramente o dolosamente sovrumane» (Limes). In questo modo, almeno, è cominciato il suo governo, aggravato dalla presenza nella maggioranza di partiti in crisi o in sonno, provvisoriamente silenziosi. Un premier di sistema, ma senza un sistema funzionante alle spalle. Il sistema-Paese che si muove in Europa e nel mondo, quell’insieme di equilibri, meccanismi istituzionali, gioco di squadra che tiene insieme lo Stato. Ricostruire questo sistema, senza affermarlo, è il terzo obiettivo del governo Draghi. La missione non dichiarata, la più difficile, affrontata in punta di piedi, con passo felpato. Eppure essenziale: perché senza sistema non c’è realizzazione del Piano e non c’è competizione italiana nel mondo. C’è un reticolo di buone intenzioni e di ottime imprese, ma disarmate. Senza politica.

Per questo nelle ultime settimane Draghi ha cambiato uno schema di gioco che all’inizio quasi presupponeva il suo immobilismo personale, quasi che fosse da usare come un feticcio che avrebbe risolto tutto soltanto al nominarlo. Le difficoltà lo spingono a intervenire, ma non è solo una condizione di necessità. Emergenza e riforme vanno di pari passo, disse Draghi presentando il governo alle Camere, e non sono il pane e le rose, sono due termini che costituiscono il terreno di una battaglia politica, che richiedono una leadership politica.


L’esigenza di parlare al Paese con le conferenze stampa in cui in qualche caso l’irritazione e perfino qualche autentica gaffe testimonia che la riserva della Repubblica è entrata compiutamente in campo e ha accettato le regole del gioco, con le sue durezze e i suoi rischi di caduta e di sconfitta. È il rischio ragionato di Draghi, maturato nelle settimane finali del governo Conte (su cui, come seguendo un codice che si è auto-imposto, Draghi non ha mai proferito parola) e nelle ore che hanno preceduto la chiamata di Mattarella. Nel Piano c’è la filosofia del debito buono, lanciata per la prima volta al Meeting di Rimini dell’estate 2020, finalizzato alla crescita. Un’idea di keynesismo ordinato, non ideologico. Un ruolo di accompagnamento quasi fisico degli uomini dello Stato centrale e del ministero dell’Economia che si muoveranno per i territori per semplificare, spiegare, aiutare a superare il gap che impedisce a molti enti territoriali di spendere i fondi arrivati nei decenni passati. È il tentativo di mettere a terra le idee che è l’opposto dell’illuminismo, del riformismo dall’alto che ha caratterizzato i governi tecnici degli ultimi anni e anche le politiche del centro-sinistra, lasciando le praterie ai sovranisti e ai populisti di ogni forma. Negli Usa di Joe Biden tutto questo sta già accadendo. Nell’Europa dei diritti calpestati (ne parla Federica Bianchi) siamo ancora indietro.

I territori si sono presi una rivincita sul fronte meno atteso, quello calcistico, dove la Waterloo del progetto Superlega è il rovescio di un mondo dove conta solo la super-élite senza radice, senza progetto, senza memoria e dunque senza futuro. Una lezione che non tocca solo il calcio, come hanno dimostrato le reazioni delle cancellerie di tutta Europa.

Rifare lo Stato, ricostruire il sistema, la transizione ecologica, la giustizia, la pubblica amministrazione, la semplificazione delle procedure, la digitalizzazione, oltre alla sanità, è il pacchetto che si intuisce in controluce dietro le singole misure del Piano. Riforme strutturali, anche se in un senso diverso da come se ne parlava all’inizio degli anni Sessanta, nel primo centro-sinistra. Con l’incognita della reale ricaduta sulla vita quotidiana delle persone, sulla disuguaglianza che nell’anno del Covid-19 è cresciuta città per città, quartiere per quartiere. Ma è questa la fase che segna un secolo intero, o almeno il suo cuore, il secolo breve del XXI secolo, come furono il primo conflitto mondiale e gli anni Venti per il Novecento. Quell’età che si concluse con la seconda guerra, gli orrori dei totalitarismi, la festa della Liberazione e della Ricostruzione. Il salto verso il futuro. Il fiore del partigiano.



Source link

Leave A Reply