Bergoglio in Iraq completa il cammino di Wojtyla

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AGI – Le orme sono quelle di Abramo, ma il sentiero è quello tracciato da Giovanni Paolo II. Wojtyla morì con un sogno inappagato, visitare Ur dei Caldei e pregare in quella che fu la culla delle religioni rivelate. Non gli riuscì, per via dei veti delle grandi potenze. Si incubava, allora, la guerra che nel 2003 avrebbe fatto precipitare quella parte di mondo nella crisi che ancora adesso attanaglia il Medioriente. Iraq centro della regione più instabile del Pianeta, oggi come allora e anche prima e ancora prima.

“Giovani leader”, disse il papa polacco, “mai più guerra“. Lui sapeva bene cosa fossero le distruzioni, gli stermini, i genocidi. Non fu ascoltato. Sarebbe stato l’ultimo grande gesto del suo pontificato, segnò invece il culmine dell’Età dell’indifferenza. Il papa argentino chiude quella pagina, una ventina d’anni dopo, ponendo la Chiesa nel cuore di un’opera di ricostruzione che vuole essere prima di tutto morale, ma non potrà prescindere dalla creazione di una nuova cultura della solidarietà.

E’ il secondo fuoco dell’orbita ellittica che racchiude il ciclo di una terra che da allora ha subito esattamente quello che la Chiesa avrebbe potuto evitare. Così facendo Francesco riprende un cammino che è anche – e non può essere altrimenti – diplomatico e non solo diplomatico. Necessaria è la citazione: “Davvero, nella fede di Abramo Dio onnipotente ha stretto un’alleanza eterna con il genere umano, e definitivo compimento di essa è Gesù Cristo. Il Figlio unigenito del Padre, della sua stessa sostanza, si è fatto Uomo per introdurci, mediante l’umiliazione della Croce e la gloria della risurrezione, nella terra di salvezza che Dio, ricco di misericordia, ha promesso all’umanità sin dall’inizio”.

Lo disse proprio Giovanni Paolo II (era il 2000), dando la dimensione metastorica del viaggio che non avrebbe mai fatto. Quell’alleanza in qualche modo è stata rotta, oggi la si ristabilisce. Wojtyliana è la prosa usata da Bergoglio anche oggi, quando ha incontrato la comunità siro-cattolica in una cattedrale che ha appena ricordato il decimo anniversario della strage che vide, tra le sue mura, il macello di 48 cristiani inermi.

I macellai furono gli invasati del fanatismo islamico, le vittime martiri la cui beatificazione è in corso a Roma. A loro il Pontefice, arrivato in Iraq in un viaggio fortissimamente voluto, dedica più di un pensiero e alle parole del suo predecessore sembra rifarsi direttamente: “La loro morte ci ricorda con forza che l’incitamento alla guerra, gli atteggiamenti di odio, la violenza e lo spargimento di sangue sono incompatibili con gli insegnamenti religiosi”. Oggi, aggiunge, “siamo benedetti dal sangue dei nostri fratelli e sorelle che qui hanno pagato il prezzo estremo della loro fedeltà al Signore e alla sua Chiesa. Possa il ricordo del loro sacrificio ispirarci a rinnovare la nostra fiducia nella forza della Croce e del suo messaggio salvifico di perdono, riconciliazione e rinascita. Il cristiano infatti è chiamato a testimoniare l’amore di Cristo ovunque e in ogni tempo”.

Non può sfuggire la dimensione internazionale di questo pontificato, che esce rafforzata dalla visita apostolica di questi giorni. E’ cosa quasi evidente: in tempi di Covid Bergoglio si muove di persona, stringe mani, accoglie il contatto diretto con la gente. Riprende una diplomazia del contatto diretto. Un segnale al momento impercettibile se non per i ragazzi con disabilità che ha benedetto entrando nella cattedrale, ma che nel tempo è destinato a lasciare la sua impronta.

La continuità con Wojtyla però non si ferma a questo. E’ da un anno che il Pontefice sembra impegnato a rivendicare il suo essere pienamente nella scia di Giovanni Paolo II, nei suoi libri e nel suo agire. Un modo per liberarsi dall’abbraccio – talvolta soffocante – di quanti dentro e fuori le Sacre Mura sembrano volerlo chiudere nell’angolo di un progressismo eccessivo caratterizzato solo dalle rotture con il passato. Atteggiamento, quest’ultimo, che inevitabilmente dà modo di rafforzarsi alle critiche di chi vede in lui, per l’appunto, solo l’uomo della soluzione della continuità.

Il rischio è quello di restare stritolato da queste tensioni e di scatenare fratture non desiderate. Un esito che potrebbe compromettere la sua attenta gestione delle cose della Chiesa. Sicuramente è una casualità, ma proprio oggi mentre lui rientrava nella nunziatura alla fine di una intensa giornata di colloqui e di incontri con le autorità religiose e civili irachene, cui ha chiesto il rispetto di tutte le minoranze religiose e non, da Roma giungeva un comunicato.

Prima di partire, si faceva sapere, Bergoglio aveva ricevuto i nuovi vertici della Comunità di Bose e il delegato pontificio lì mandato a gestire la complicatissima crisi che la attanaglia. I fatti sono presto detti: il fondatore di Bose, Enzo Bianchi, aveva lasciato la guida del monastero, ma poi era stato accusato di aver operato una rinuncia solo di facciata continuando ad intervenire sulla gestione scavalcando il successore, Luciano Manicardi. A questi il delegato, Padre Amedeo Cencini, aveva dato sostanzialmente ragione invitando Bianchi a lasciare Bose per ritirarsi in una sede della Comunità a San Gimignano.

Ordine disatteso una, due, tre volte. In difesa di Bianchi, ed all’attacco di Cencini, si era espressa anche parte della stampa italiana. Oggi si fa sapere che il Papa, prima di lasciare l’Italia (vale a dire ad ore antelucane, visto l’orario della partenza, ha ribadito piena fiducia nel suo messo tacciato di oscurantismo. Ed ha chiesto l’esecuzione immediata delle sue decisioni. Al di là del merito della questione, si ribadisce il principio dell’autorità all’interno della Chiesa e dei rappresentanti del Papa. Wojtyla probabilmente avrebbe fatto altrettanto.

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