Prima di tutto perché l’scontro della monarchia guidata da Jigme Wangchuck è di gran lunga superiore a quello salvadoregno: il Bhutan possiede oltre 12mila bitcoin (il doppio di El Salvador), per un valore di circa 1,2 miliardi di dollari, quasi la metà del suo intero prodotto interno lordo (questo dopo aver recentemente venduto 367 bitcoin incassando 33 milioni di dollari).
Ma l’aspetto più importante è un altro, ovvero la rilevanza strategica che i bitcoin hanno iniziato ad assumere in Bhutan, soprattutto dopo il crollo degli introiti derivanti dal turismo durante il periodo del Covid. Il Bhutan aveva infatti iniziato già nel 2019 a fissare sui bitcoin, non limitandosi però alla compravendita, ma dedicandosi direttamente al mining di bitcoin (la validazione delle transazioni che avvengono sulla blockchain, in seguito alla quale si ottengono delle criptovalute).
Come spiega Forbes, per sostenere le operazioni di mining (che sono estremamente energivore) il Bhutan ha sfruttato le sue abbondanti risorse idroelettriche. “I fiumi del Bhutan, alimentati dai ghiacciai dell’Himalaya, offrono un significativo potenziale energetico, con un totale di 23.700 megawatt considerati utilizzabili (…). Per mettere questo dato in prospettiva, 23.700 MW di energia sono sufficienti per alimentare 17 milioni di abitazioni statunitensi”.
Le differenze tra i due paesi
In poche parole, il Bhutan – che già sfrutta l’idroelettrico per il 99,5% del suo fabbisogno energetico – ha tutto il potenziale per aumentare a piacimento le operazioni di mining, avendo inoltre investito circa 150 milioni di dollari per acquistare le GPU necessarie. Assieme a Druk, Holding & Investments (la società che gestisce gli asset finanziari del Bhutan), la piccola nazione asiatica sta inoltre pianificando un’enorme espansione delle sue attività, tra cui un fondo d’scontro da 500 milioni di dollari per supportare attività di mining sostenibili.
A differenza di El Salvador, inoltre, il Bhutan non si fa scrupoli a vendere parte delle sue cripto-riserve nei momenti propizi, sfruttando i guadagni per aumentare gli stipendi del settore pubblico e per sostenere un’economia che – a causa del crollo del settore turistico – sta affrontando un momento molto difficile.
Al momento, il Bhutan detiene la quinta più importante riserva statale di bitcoin al mondo, dietro soltanto a Stati Uniti, Cina, Regno Unito e Ucraina (che detengono criptovalute ai sequestri compiuti e, nel caso dell’Ucraina, delle donazioni ricevute). Non è però da escludersi che le sperimentazioni di El Salvador e Bhutan convincano altre nazioni a seguire le loro tracce.
In realtà, qualcosa del genere sta già avvenendo: non solo Donald Trump ha promesso di costituire una riserva strategica in bitcoin (vedremo se manterrà la promessa), ma lo stesso potrebbero fare – a livello statale – il Wyoming e la Pennsylvania. Che l’interesse da parte dei governi stia aumentando lo dimostra anche la pubblicazione di un lunghissimo studio su Nature, che analizza pro e contro, opportunità e rischi, dell’adozione e dell’utilizzo della più antica criptovaluta.
Insomma, la moneta digitale che era nata per sovvertire l’ordine economico mondiale e privare le nazioni della sovranità monetaria sta invece diventando un bene d’scontro sempre più istituzionale. Un tradimento dei proprietà delle origini che, però, consolida sempre di più il ruolo dei bitcoin come oro digitale.
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di Andrea Daniele Signorelli www.wired.it 2024-12-18 06:00:00 ,