di Luca Zorloni
La sortita si è tramutata in una guerra di posizione. Da un anno, nelle stanze dove si definiscono gli standard di internet, la Cina insiste a ridiscutere l’architettura che da cinquant’anni tieni in piedi la rete così come la conosciamo. Ovvero il modello Tcp/Ip, che Pechino reputa inadeguato per le sfide future del web: ologrammi, reti tattili (che simulano il contatto), trasmissioni via satellite, internet delle cose. Tanto che nel 2019 ha presentato all’Unione internazionale delle telecomunicazioni (Itu), l’agenzia delle Nazioni unite che fissa gli standard del settore, una proposta di riforma, nota come New Ip, subito accusata da Stati Uniti, Canada ed Europa di voler spezzare la rete globale in tante isole soggette a un maggiore controllo dei governi e perciò silurata a dicembre dell’anno scorso.
A quanto Wired ha raccolto da fonti al lavoro sugli standard di internet, la Cina, tuttavia, non si è arresa. Non ha vinto la battaglia al voto dell’Itu del 17 e 18 dicembre 2020, ma è intenzionata a vincere la guerra. Per questo ha avviato una campagna silente per rimettere in discussione la storica organizzazione di internet. Non a caso il New Ip è tornato ad accendere gli animi dell’Internet governance forum (Igf), la conferenza delle Nazioni unite sul futuro della rete che si è svolta tra il 6 e il 10 dicembre a Katowice, in Polonia. Il Manifesto lo definisce: un parlamento di internet. Che non a caso ha come slogan: “Internet united”. Mai come ora, tra il crescente dominio delle piattaforme da un lato e la stretta dei governi dall’altro, la rete è sotto attacco.
L’allerta alla conferenza delle Nazioni Unite
In un incontro sui modelli di governance di internet, New Ip è tornato al centro della discussione. “Non è vero che l’Ip [l’internet protocol, che gestisce gli indirizzi dei terminali e ne consente il dialogo, ndr] è una cosa vecchia, come sostiene il progetto New Ip – la linea di Alain Durand, responsabile tecnologico dell’Internet corporation of assigned names and numbers (Icann), l’ente che assegna gli indirizzi Ip, all’Igf -. Ci sono cose, come le videoconferenze, che anni fa non si potevano fare e oggi si fanno con l’Ip”. Secondo la filosofia di Pechino, il protocollo tradizionale non sarebbe in grado di tenere il passo della trasformazione dei servizi internet. Come l’esplosione dell’internet delle cose, che nel 2027, secondo le previsioni del gigante delle telecomunicazioni Ericsson, peserà per il 51% di tutte le connessioni mobili al mondo. O i servizi dallo spazio. O ancora, quella realtà virtuale sempre più spinta, il cosidetto metaverso, su cui i campioni tecnologici di Stati Uniti e Cina stanno investendo a bocca di barile.
Per Durand un modello centralizzato come quello del New Ip “sarebbe un passo indietro e farebbe rallentare l’innovazione”. Nello specifico, in un’analisi del 2020, Icann osservava che il New Ip spingerebbe per una centralizzazione molto più simile all’architettura delle reti telefoniche, mettendo a repentaglio il modello permissionless che è alla base di Tcp/Ip. “Ci sono rischi di frammentazione. E non è chiaro che problemi risolva questa proposta – ha osservato Mandy Carven, vicepresidente dell’Icann, all’Igf -. Al contrario, dobbiamo chiederci se sia il caso di cambiare il protocollo centrale della rete mentre stiamo cercando di portare online miliardi di persone ancora fuori”. Circa 2,9 miliardi, una persona su tre, secondo gli ultimi dati dell’Itu.
Source link
www.wired.it
2021-12-11 06:00:00