Gli investimenti della Commissione europea nel Recovery fund per il clima sono davvero una “rivoluzione verde” o è solo un’operazione di marketing? A seminare dubbi è arrivata mercoledì 11 settembre la doccia fredda della Corte dei conti europea. I magistrati contabili di Lussemburgo hanno messo sotto accusa i fondi per la transizione ecologica del Recovery plan, denunciando una sostanziale mancanza di trasparenza sull’uso dei soldi e una sovrastima dei contributi green.
I numeri
Nel comunicato, la Corte ricorda che almeno il 37% delle risorse del Recovery fund (il cosiddetto “piano di ripresa e resilienza”) doveva sovvenzionare progetti per il clima. Bruxelles sostiene che a febbraio 2024 si era già arrivati al 42,5%, ben 275 miliardi. Ma per i giudici questa cifra è “gonfiata” di almeno 34,5 miliardi. “Il contributo reale del piano all’azione per il clima non è chiaro”, afferma senza mezzi termini Joëlle Elvinger, relatrice dello studio. “C’è un elevato livello di approssimazione e poche indicazioni su quanti soldi vadano davvero alla transizione verde”, aggiunge nella nota.
Nel mirino sono finiti vari progetti “etichettati” come ecologici dai governi ma che in realtà sembrano avere poco o nulla a che fare con l’ambiente. Per esempio, ad una misura volta a migliorare la gestione delle risorse idriche è stato assegnato un coefficiente climatico del 40%. In realtà, i fondi erano stati spesi per soluzioni informatiche pubbliche per digitalizzare il sistema di approvvigionamento idrico; in altre parole, un coefficiente dello 0% sarebbe stato più giusto.
Per scampare a tali casi, la Corte raccomanda, nel futuro, di valutare più dettagliatamente e precisamente i progetti pertinenti per il clima. La Corte punta il dito anche contro il rischio di stime “gonfiate” dei costi delle misure verdi, visto che gli Stati comunicano solo i costi previsti senza poi rendicontare le spese vere. Con il risultato che “non si ha piena contezza delle somme effettivamente spese per il clima”. Dubbi pure sui potenziali danni ambientali di alcuni interventi approvati senza valutazioni preliminari, come una mega-diga idroelettrica.
Il futuro del Green deal
Insomma, per la Corte dei conti una bella fetta dei fondi verdi del Recovery plan rischia di rivelarsi un maxi-greenwashing. Un allarme che suona come un campanello d’allarme per il futuro del Green deal, il piano della presidente della Commissione Ursula von der Leyen per un’Europa “climate neutral” entro il 2050. La presidente riconfermata alla guida della Commissione ha promesso di andare avanti “spedita” sulla rotta verde.
Ma i venti contrari soffiano sempre più forti. Secondo rumors riportati dal Financial Times, von der Leyen starebbe pensando di dare la delega sull’ambiente non più a un socialista come ora ma a un commissario amico del suo partito, il Ppe, per documentare a vincere le resistenze interne. Nel toto-nomi era spuntata, per questo ruolo, la vicepremier spagnola Teresa Ribera, socialista verde che però, secondo le ultime notizie, potrebbe essere cooptata al portafoglio della Concorrenza. Uno schiaffo per verdi e sinistra che appoggiano von der Leyen.
A complicare il quadro ci sono anche le crescenti perplessità sulla “ambizione” del Green deal da parte di alcune capitali (Polonia in testa), che tirano da un lato, e delle ong ambientaliste che premono dall’altro. A Bruxelles si lavora per mettere insieme i pezzi del puzzle, tra nuove proposte, trattative infinite e obiettivi rivisti. La partita è apertissima. E la nomina del prossimo “Mr. o Mrs. Green deal” dirà molto su che piega prenderà la svolta verde europea.