Se fosse una ricetta gli ingredienti sarebbero gustosi e ricercati: camici, stetoscopi, corsie. Macchine d’epoca. Una corposa sfoglia di intrecci amorosi. E la storia rivoluzionaria di una dottoressa osteggiata in quanto femmina in quel degli anni Sessanta. Insomma sapori intriganti, miscelati in maniera inedita. Peccato che nonostante le migliori intenzioni “Cuori”, la nuova fiction di Rai 1 della domenica sera, lasci dopo ogni puntata quella sensazione di trovarsi di fronte a un qualcosa di assai più conosciuto, e che sotto la maschera del medical drama non nasconda altro che un semplice polpettone.
Un po’ di storia ispirata al vero, molto sentimento e un agghiacciante continuo rimpallo dai cuori in cui i chirurghi mettono le mani ai cuori come doppio senso della vita, cuori che battono, cuori spezzati, croci sui cuori. Come direbbe Vulvia del maestro Guzzanti, «Cuori! Su Rieducational Channel».
Così nell’ospedale di Torino de Le Molinette, in quel del 1967 (quando per amor di sintesi le gambe erano coi reggicalze e la musica nei 45 giri di importazione) c’è una cardiologa che lotta perché sia riconosciuto il suo valore in quanto donna in minigonna e stetoscopio, e che era l’amante del giovane dottore che ha perso il padre, e ora lotta per salvare i pazienti dalla morte, ma è sposata col primario che ha una figlia gelosa perché la madre non c’è più e fa la scavezzacollo. Praticamente un grande fotoromanzo dell’amore, che esaurisce la sua rapidità interamente nel riassunto della trama. Per il resto si dilunga sul nulla anziché lasciare al cast, che ha i suoi sprazzi di pregio nonostante i frequenti richiami ad Alberto Lupo, l’azione in prima persona.
Così quando un dottore prende l’ascensore in preda alla fretta da soccorso ci si augura solo che debba fare un unico piano perché impera la certezza implacabile che sarà seguito dalla telecamera lungo tutto il percorso.
Se la dottoressa accende una sigaretta verrà ripresa sino all’ultima cenere, e se il primario sale in macchina per raggiungere la sua meta vedremo tutti i viali, albero dopo albero, marciapiede dopo marciapiede in una sorta di documentario sulla viabilità torinese. Anche i dialoghi cedono spesso all’indolenza: «In questi anni ho pensato molto a quello che è successo». Pausa. «Eh sì». Pausa. «Ma non è successo. L’hai fatto succedere». Pausa. Ripausa. Sguardi. Musica.
Così tra un caso e l’altro, una mascherina di garza e un tradimento, si insinua un sospetto sin dalla seconda inquadratura: che si tratti di uno sceneggiato a tutti gli effetti e che il secolo scorso più che un’ambientazione sia una categoria dello spirito.
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di Beatrice Dondi
espresso.repubblica.it
2021-10-25 07:27:00 ,