“Dai pannelli solari ai diamanti artificiali: vi spiego quanto vale un gioiello a impatto zero”

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Si è sempre mosso con molto anticipo, bruciando tappe e tempi, Martin Roscheisen. Classe 1968, cresciuto a Monaco ma austriaco di cittadinanza, è sbarcato nella Silicon Valley per frequentare la Stanford University finendo per avere come compagni di corso Sergey Brin e Larry Page, che più tardi avrebbero fondato Google. Da allora, era il 1992, alterna successi e fallimenti arrivando a volte troppo presto in certi ambiti. Accadde 19 anni fa con Nanosolar, prima azienda nata a San Francisco e dintorni a dedicarsi alla produzione dei pannelli solari. Premiata più volte per le sue innovazioni, si è dovuta arrendere a un mercato che di rinnovabili pensava non ce ne fosse bisogno, mentre la California hi-tech di oggi sta puntando sempre più sulle startup impegnate proprio su quel fronte.

Jeremy Scholz, Kyle Gazay e Martin Roscheisen, i fondatori di Diamond Foundry 

Roscheisen nel 2015 ha cambiato ambito e deciso di ripulire i diamanti dal sangue, per citare il film Blood Diamonds di Edward Zwick, che ha per protagonista Leonardo Di Caprio. La sua Diamond Foundry, valutata due miliardi di dollari e finanziata fra gli altri dallo stesso Di Caprio e da Tony Fadell, l’inventore dell’iPod e dei termostati Nest, le pietre preziose le fabbrica in laboratorio senza impattare in alcun modo sull’ambiente né sfruttare la manodopera a basso costo impiegata nelle miniere. E ora rifornisce anche il colosso danese Pandora, che ha deciso di usare per i gioielli che realizza solo pietre sintetiche.

“Il costo di produzione per carato dei diamanti artificiali è il doppio rispetto a quelli naturali anche perché sono molto più puri. Ma sul mercato il prezzo alla fine è la metà, tanto è folle il settore dei preziosi tradizionali”, racconta Roscheisen in collegamento video dalla casa di Los Angeles, dove vive con la compagna e le due figlie. “Venivo da una società che produceva pannelli solari molto avanzati, forse troppo per il 2002, tanto da fallire commercialmente. Durante quell’esperienza scoprimmo però quali erano i materiali necessari all’industria hi-tech, specie nell’elettronica di alto livello, e i diamanti sono fra questi. Sono estratti da un cartello di compagnie che di fatto violenta la natura creando problemi ambientali e sociali. Mi ero ripromesso di abbandonare il campo della manifattura, che è molto duro, eppure capii che c’era una grossa opportunità che non potevo non cogliere. Conoscevo personalmente tantissimi talenti del Massachusetts Institute of Technology (Mit) o di Princeton e se c’è un materiale che per certi versi è simile al software quello è proprio il diamante”.

L’opportunità viene anche e soprattutto dal prezzo delle pietre stesse: ne basta una grande come un’unghia per raggiungere il valore commerciale di trenta chili di pannelli solari. La startup di Roscheisen, che ha circa mille dipendenti ed è stata fondata con Jeremy Scholz and Kyle Gazay che erano con lui in Nanosolar, guarda oltre il settore della gioielleria e quello dei diamanti grezzi che da solo vale 4,6 miliardi di dollari. Anzi, valeva 4,6 miliardi ad essere precisi. La cifra si riferisce infatti al 2019. Da allora a causa del Covid-19, con parte delle miniere chiuse e le operazioni di estrazione e di vendita al dettaglio ridotte, De Beers Group e gli altri hanno visto ridursi la domanda del 30%, con i conti della multinazionale sudafricana che per la prima volta dal 2009 si sono tinti di rosso.  

 

“Quelli che riusciamo a fare noi in laboratorio, con singoli cristalli di grandi dimensioni, ottenerli in natura è pressoché impossibile”, continua l’amministratore delegato di Diamond Foundry. “Prenda ad esempio l’anello disegnato da Jony Ive, fra i ‘padri’ dell’iPhone, venduto all’asta da Sotheby’s per 256 mila dollari. Ecco, viene da un singolo cristallo di diamante. Si tratta di pietre purissime che possono essere impiegate nelle telecomunicazioni, nel cloud computing o nei sistemi per l’intelligenza artificiale oltre che nella gioielleria”.

Nella fonderia di San Francisco i diamanti vengono forgiati partendo dal plasma, considerato come il quarto stato della materia oltre al solido, liquido e al gas. Una sfera incandescente simile a un piccolo sole, nella quale gli atomi vengono attaccati al reticolo cristallino di un diamante naturale minuscolo ingrandendolo ed estendendone la struttura. Ma la base di diamante naturale è stata solo un passaggio iniziale. Diamond Foundry taglia infatti le pietre che ha prodotto per usarne una porzione come base dalla quale partire per crearne di nuove. E ogni diamante, sostiene l’azienda, è un cristallo unico e incontaminato.

Il prezzo per carato delle gemme di Diamond Foundry, che ha un suo marchio commerciale chiamato Vrai, è di circa 282 dollari. Ne produce 100 mila carati l’anno. Quello dei diamanti di De Beers e della russa Alrosa, le più importanti, è di circa 133 dollari. I ricarichi legati al taglio, alla pulitura e alla rete di vendita li rendono però più costosi.

Nel 2004 l’Economist sostenne che il cartello dei diamanti, che ne controlla il prezzo, aveva i giorni contati. E dall’uscita del film Blood Diamonds sono cambiate diverse cose, anche se non abbastanza. Mentre De Beers e Alrosa hanno messo in piedi un sistema di tracciamento, per garantire che le pietre trattate da loro non vengano da zone di guerra, dal 2003 esiste anche il Kimberley Process, un protocollo messo a punto in Sud Africa e approvato dalle Nazioni Unite, che dovrebbe certificare l’origine dei diamanti. Ma l’efficacia di queste misure è stata da più parti messa in discussione.

Un rapporto di 64 pagine pubblicato a febbraio dalla testata sudafricana Maverick Citizen, ha sostenuto ad esempio che ancora oggi il traffico illegale di oro e diamanti dallo Zimbabwe, controllato dal presidente Emmerson Mnangagwa e dove il 67 per cento della popolazione vive in povertà, vale oltre tre miliardi di dollari all’anno. Ed è solo uno dei vari Paesi coinvolti. Le dieci miniere più importanti, parliamo di quelle ufficiali, si trovano in Botswana, Russia, Canada e Angola. Ma ne esistono centinaia, dal Sud Africa al Brasile, completamente fuori controllo. Molte delle guerre che hanno segnato la storia recente della Liberia, Costa d’Avorio, Angola, Sierra Leone, Repubblica Democratica del Congo e quella centrafricana, con 3,7 milioni di morti, sono state alimentate dal mercato nero dei diamanti.

“Il bello? Che non c’è alcuna scarsità di diamanti, come invece sostengono a De Beers”, continua Martin Roscheisen. “Ho parlato personalmente con chi gestisce una delle miniere più importanti al mondo e sottoterra ne esiste una quantità quasi senza limiti. E non ha senso attribuire il valore in base all’età della pietra stessa. Insomma, il prezzo dei diamanti naturali è del tutto artificiale e gli interessi che muove con i danni che produce, non hanno motivo di essere. Dopo anni di attacchi subiti da parte di questa industria, la Federal Trade Commission nel 2018 ha dichiarato i diamanti sintetici diamanti a tutti gli effetti. Sono fatti a zero emissioni: usiamo energia dalle rinnovabili e produciamo ossigeno durante il processo convertendo il biossido di carbonio. Senza creare problemi al Pianeta o alla società”.  

Da quando si è cominciato a fare ricerca sui diamanti sintetici negli anni Quaranta in Stati Uniti, Svezia e Unione Sovietica, con il primo vero prototipo prodotto del 1953, solo di recente questo settore ha iniziato a contare qualcosa. La stessa De Beers produce pietre del genere, ma fino al 2018 erano solo per uso industriale. Oggi ci sono una manciata di compagnie impegnate nella fabbricazione dei diamanti in India, Cina e Stati Uniti oltre a Diamond Foundry. “Stiamo per aprire una nuova fonderia nel sud Europa, che userà solo energia solare, e la scelta è fra Spagna e Italia”, conclude Roscheisen. “L’attenzione per la sostenibilità in Europa è molto alta. Da questo punto di vista è l’area geografica che sta facendo di più”. Stavolta l’imprenditore austriaco spera di non essere arrivato troppo presto, ma esattamente al momento giusto.

Prima di lasciarlo, gli chiediamo un’ultima cosa: quel che ricorda di Larry Page e Sergey Brin dei tempi dell’università. “Avevano una spiccato senso per l’osservazione. Una sera stavamo andando ad una cena di compleanno sulla mia macchina e Larry mi disse che una delle ruote faceva un rumore che non avrebbe dovuto fare. Non me ne ero minimamente accorto. L’attenzione alle cose era fuori dal comune”. Si vede che parte del loro successo è dovuto proprio al saper guardare quel che li circonda per capire cosa serve. Come in fondo sta cercando di fare anche Martin Roscheisen.



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