Dai processi al crac, così è affondata l’azienda che si era affidata al contabile della Lega

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Ai bei tempi, con la Lega rampante e Matteo Salvini al Viminale, Marzio Carrara e Alberto Di Rubba erano inseparabili. Imprenditore il primo, con l’idea fissa di diventare primo tipografo d’Italia, settore diari, agende e affini. Mentre Di Rubba, l’uomo dei numeri, il revisore dei conti del Carroccio, si era messo al servizio dell’amico per tirare le fila di un progetto ad alto rischio, un sesto grado delle scalate finanziarie. È finita male.

Il contabile leghista, sotto processo a Milano per peculato nell’acquisto della nuova sede della Lombardia film commission, a giugno è stato condannato in primo grado a cinque anni di reclusione. Tempo due mesi e anche Carrara è arrivato all’ultima curva. Prima di Ferragosto, l’imprenditore ha portato i libri in tribunale chiedendo il concordato per il gruppo Boost, nato dalla fusione di Johnson e Lediberg, due aziende con sede in provincia di Bergamo rilevate nel 2018.

La svolta di questi giorni è l’ultimo capitolo di una storia accidentata, un racconto in cui si intrecciano politica, finanza e ambizioni personali. In gioco c’è il destino di oltre 700 posti di lavoro, con i dipendenti che già da mesi ricevono in ritardo lo stipendio. L’ultimo colpo alle residue promesse di Carrara risale al 28 giugno quando il Banco Bpm ha dato lo stop a un prestito di 32 milioni complessivi da erogare insieme alla Popolare di Sondrio, un finanziamento assistito anche dalla garanzia pubblica della Sace. A questo punto, con le casse vuote, i conti in rosso e 140 milioni di debiti, il concordato in bianco serve a prendere tempo in attesa di presentare entro quattro mesi un piano di salvataggio dettagliato.

Nelle carte che accompagnano il ricorso al tribunale fallimentare di Bergamo, un dossier a cui L’Espresso ha avuto accesso, si legge tra l’altro che «la decisione del Banco Bpm di non proseguire con l’erogazione del finanziamento non è attinente alle ragioni di merito creditizio della società». L’allusione è chiara. Il vero motivo del dietro front sarebbe il rapporto tra Carrara e il leghista Di Rubba, finito sul banco degli imputati proprio mentre i negoziati per il salvataggio dell’azienda bergamasca entravano nel vivo. In altre parole, i banchieri temono che l’inchiesta penale sui fondi neri del partito di Salvini potrebbe in futuro coinvolgere anche il patron del gruppo Boost. Il quale, va detto, non è al momento indagato, anche se il suo nome compare molte volte nelle carte giudiziarie sui maneggi finanziari dei contabili del Carroccio.

Difficile negare, però, che Di Rubba, condannato insieme all’altro contabile leghista Andrea Manzoni (4 anni e 4 mesi), abbia giocato un ruolo di primo piano nella rapidissima ascesa di Carrara, scandita da acquisizioni, scorpori e fusioni, con società che nascono e muoiono nel giro di poche settimane, holding che cambiano nome e funzioni e si sovrappongono l’una all’altra.

Questa girandola finanziaria, secondo quanto emerge dai documenti dell’inchiesta penale, ha prodotto vantaggi immediati per pochi fortunati, tutti legati al carro leghista guidato da Di Rubba. Quest’ultimo, per dire, nel maggio del 2018, ha incassato oltre un milione di euro come plusvalenza della rivendita di una delle aziende acquisite insieme all’amico Carrara e al manager Alessandro Bulfon. In pratica la stessa società, comprata per cinque milioni all’inizio del 2018, è stata ceduta a maggio per 29 milioni al gruppo Elcograf della famiglia Pozzoni. Un affare che ha dell’incredibile, a suo tempo segnalato come sospetto dagli analisti dell’Unità d’informazione finanziaria (Uif) della Banca d’Italia.

Seguendo la pista dei soldi, gli investigatori hanno anche scoperto che tra il 2018 e il 2019 centinaia di migliaia di euro sono passati, a titolo di compenso per i servizi più disparati, dai conti dell’imprenditore bergamasco a quelli di alcune società controllate dallo stesso Di Rubba insieme al sodale Manzoni. Nella partita si è inserito da subito anche Francesco Barachetti, l’ex idraulico di Casnigo, un paesino vicino a Bergamo, che ha fatto fortuna grazie anche alle commesse del Carroccio. Barachetti è ancora sotto processo nell’inchiesta che ha travolto i due contabili leghisti e pure lui ha lavorato per le aziende di Carrara, che gli ha anche venduto una villa in Costa Smeralda. Ce n’era per tutti, davvero. Di Rubba e Manzoni, grazie anche al collaudato rapporto con il tesoriere della Lega, Giulio Centemero, hanno ricevuto incarichi pubblici e prebende. La Barachetti service invece si è rapidamente trasformata in un general contractor attivo dall’impiantistica fino ai servizi di pulizia e sanificazione.

«Non rinnego niente», dice Carrara interpellato da L’Espresso. «I miei pagamenti sono tracciati e in chiaro. Non ho nulla da nascondere», si difende. L’imprenditore bergamasco ci tiene anche a confermare la sua stima nei confronti di Di Rubba. «La nostra collaborazione si è interrotta ma spero che riesca prima o poi a dimostrare la sua innocenza», spiega.

Per un paio d’anni la coppia ha macinato affari a gran velocità. Il contabile leghista faceva la spola con Roma, dove era revisore dei conti del Carroccio al Senato, mentre a Bergamo prendeva forma il progetto Boost. Un progetto ad alto rischio, perché i conti di Lediberg, così come quelli della Johnson, l’altra azienda da acquisire, grondavano perdite e debiti. Carrara però non è il tipo che si tira indietro di fronte alle prime difficoltà. Erede della tipografia di famiglia, puntava al salto di qualità e ha scommesso sulla Lediberg, che possiede marchi di agende molto noti come Castelli e Nazareno Gabrielli.

All’inizio del 2018 il risanamento entra nel vivo con l’intervento della società di consulenza Kpmg, che studia il caso, prescrive interventi sui costi, individua «sinergie verticali», suggerisce lo sviluppo di nuovi prodotti. C’è anche il via libera di Ermanno Sgaravato, il commercialista chiamato ad asseverare, così come prevede la legge fallimentare, il piano presentato dall’imprenditore. Sgaravato, per la cronaca, è lo stesso professionista che proprio in quei mesi, in veste di commissario straordinario, accompagnò verso la definitiva chiusura il gruppo Mercatone Uno e per questo motivo è finito da indagato in un’inchiesta penale della procura di Milano.

A Bergamo, invece, l’operazione sembrava procedere senza intoppi, almeno da principio. Le banche, pur di evitare il crac di un debitore importante, hanno rinunciato a incassare oltre due terzi degli 80 milioni di crediti vantati nei confronti della Lediberg. Quest’ultima, messa in vendita da un fondo con base nel paradiso fiscale delle Antille olandesi, è stata fusa con la Johnson a sua volta ceduta dalla holding tedesca Bavaria. Affare fatto. Si può festeggiare. E Carrara, che su alcuni giornali diventa “The King”, il re delle tipografie, si regala uno yacht da 27 metri intestato a una società amministrata, manco a dirlo, dal solito Di Rubba.

Fin da subito, però, le prospettive di crescita della neonata Boost si sono rivelate quantomeno incerte. Il bilancio consolidato del 2019, il primo dell’azienda nata dalla fusione, si è chiuso in perdita di quasi 4 milioni con i debiti che superavano di tre volte i mezzi propri. Tutto questo nonostante i pesanti tagli di personale che già nel 2019 hanno portato all’uscita di un centinaio di dipendenti, in gran parte prepensionati.

Conti alla mano, quindi, il rilancio del gruppo, obiettivo dichiarato da Carrara, non sembrava esattamente a portata di mano. Servivano nuovi investimenti e un mercato in crescita, o quantomeno stabile. Nel 2020 è invece esplosa la pandemia e il castello di carte alla fine non ha retto alla prova della crisi. Il business delle agende, principale prodotto del gruppo Boost, soffre da tempo la concorrenza delle applicazioni digitali. E in tempi di Covid-19, con i meeting aziendali trasferiti sulle piattaforme online, la domanda di bloc-notes, taccuini e simili non poteva che diminuire. Nel 2020 i ricavi sono così crollati del 30 % rispetto ai 137 milioni incassati l’anno precedente e nonostante il massiccio ricorso alla cassa integrazione pagata dallo Stato, l’azienda si è ben presto avvitata in una crisi finanziaria pesantissima.

Se il tribunale darà infine via libera al concordato in bianco, ci sarà il tempo per cercare sul mercato un nuovo azionista pronto a scommettere sul rilancio del gruppo. Sul futuro pesa però anche un’incognita supplementare. Dai documenti ufficiali si scopre che Boost non ha pagato tasse e contributi previdenziali per 46 milioni. Un arretrato pesante, che dovrà essere in qualche modo sanato, magari con una transazione con il fisco, per arrivare all’omologa del concordato. Carrara si dice pronto a fare la sua parte. Intanto, l’anno scorso, la sua famiglia ha inaugurato un ristorante in pieno centro a Bergamo. L’iniziativa ha subito dovuto fare i conti con lockdown e restrizioni varie. Socio di peso è Antonio Percassi, il nipote quarantenne dell’omonimo patron dell’Atalanta. Entrambi, quantomeno, possono consolarsi con i successi sui campi da calcio. 



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di Vittorio Malagutti
espresso.repubblica.it
2021-08-30 07:32:00 ,

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