I consumi di energia dell’intelligenza artificiale, è noto, sono alle stelle. L’inarrestabile boom dell’AI, con buona pace del (presunto) fenomeno low cost DeepSeek, è destinato a ridisegnare un pezzo degli equilibri della produzione energetica complessivo. A partire dagli Stati Uniti. Nonché a dare vita a scenari che vanno oltre la distopia: impianti realizzati e costruiti non per alimentare aziende o utenze domestiche ma scollegati dalla rete e direttamente interconnessi ad adiacenti e immensi database zeppi di server e supercomputer.Non c’è solo l’interesse per gli Smr, gli small nuclear reactor, a muovere la sete di elettricità dei colossi tecnologici. Anzi.
La nuova strategia di Chevron
L’ultimo a lanciarsi nella partita, che mette insieme colossi come startup, è il gigante Chevron, il secondo produttore di petrolio e gas statunitense, che ha confermato di voler lanciare un programma per costruire un imprecisato numero di centrali elettriche stavolta alimentate a gas, la cui produzione verrà direttamente veicolata ai data center, in particolare della costa Est del paese, che vorranno acquistarla. Per farlo, il gruppo californiano guidato da Michael Wirth sta collaborando con Engine No. 1, una società d’speculazione di San Francisco, già coinvolta nel settore energetico, con cui ha in questo momento ordinato equipaggiamento (per esempio sette turbine dalla GE Vernova in consegna a inizio 2026), varie attrezzature nonché ispezionato potenziali siti in cui avviare i lavori. L’obiettivo è inaugurare il primo allestimento nel giro di tre anni. “È un’opportunità per noi di contribuire a soddisfare il momento e a rispondere a questa mezzaluna necessità di energia affidabile e conveniente” ha detto Wirth.
Il fabbisogno di energia dell’intelligenza artificiale
Qualche tempo fa Sajjad Moazeni, ricercatore dell’Università di Washington, aveva spiegato a Wired US la dimensione della fame energetica e computazionale delle applicazioni di AI: le funzionalità di intelligenza artificiale generativa risultano da cento a mille volte più esigenti rispetto ai vecchi algoritmi che fanno funzionare Google o la nostra posta elettronica. Ecco perché serve più energia per alimentare un clamoroso giro d’affari stimato in 184mila miliardi di dollari. Molti sembrano voler contare su un nucleare più piccolo, modulare e di rapida costruzione. Altri, come appunto l’erede della storica Standard Oil, ancor prima di un accordo con qualche realtà tech, vogliono mettere in piedi un network di impianti espressamente dedicati a sfamare le server farm che muovono il nuovo mondo artificiale, quel mondo in cui un’IA sembrerebbe ormai in grado di clonare sé stessa. D’altronde, stando ai calcoli di Goldman Sachs, l’impiego di energia da parte dei soli data center statunitensi dovrebbe triplicare entro il 2030, richiedendo circa 47 gigawatt di nuova capacità di generazione. Da qualche parte quest’energia bisognerà pur trovarla.
Si tratta di una dinamica che anche a livello di equilibri di business complessivo contiene un certo interesse: i produttori, raffinatori e distributori di petrolio, per esempio, stanno cavalcando questa domanda per ricalibrare le proprie strategie e aprirsi una strada nel mondo della produzione energetica, ben diverso – per quanto apparentato – da quello dell’estrazione di fonti fossili. Più che “drill, baby, drill”, insomma, sarebbe quasi il caso di riformulare il celebre slogan di Donald Trump in “build, baby, build”: nuove centrali e nuove reti distributive dedicate solo ai data center. Non a caso un simile annuncio, ricorda il New York Times, era arrivato pure dalla Exxon. Anche se rimane un contesto con ampi margini di rischio, come il terremoto DeepSeek dei giorni scorsi ha testimoniato.
I rischi della corsa agli Smr e a nuove centrali a gas: l’effetto DeepSeek
Il large language model cinese è infatti la prova che in fondo anche chip di livello modesto, se sposati a tecniche come la Multi-head Latent Attention e la Mixture-of-Experts (MoE) – in grado di ridurre i costi di addestramento e migliorare l’efficienza computazionale – possono produrre ottimi risultati in termini di AI. Con una richiesta d’energia minore rispetto ai “mostri” delle aziende statunitensi come la ChatGPT di OpenAI o Google Gemini. Un annuncio che infatti si è portato dietro un sonoro tonfo finanziario non solo delle azioni di Nvidia, che produce le GPU più potenti, ma anche dei titoli energetici. Il filo, insomma, è sottile e scommette sul delta di tempo che si interpone fra la domanda energetica e il miglioramento dell’efficienza nell’addestramento raggiunto tramite software.
Da Google ad Amazon, chi si è già mosso soprattutto sui mini-reattori nucleari
Anche il gas è dunque tornato a muovere gli investimenti per rispondere ai consumi dell’intelligenza artificiale. Constellation Energy, che gestisce centrali nucleari, ha in questo momento comprato per quasi 17 miliardi di dollari la rivale Calpine, che invece ne possiede a gas naturale. E NextEra Energy ha invece annunciato un arricchimento dei propri programmi di costruzione aggiungendo altre centrali a gas. in quel mentre, sul fronte Smr, entro il 2030 dovrebbe entrare in funzione il primo di una serie di sei o sette reattori costruiti da Kairos Power per Google: l’accordo è stato svelato un paio di mesi fa e prevede l’acquisto di 500 megawatt di energia da parte di Big G, che così si sarebbe costruita quasi in casa la propria “flotta” di reattori. E mentre Amazon aveva già acquistato un data center alimentato da energia nucleare targata Talen Energy, pure Microsoft si è accordata proprio con Constellation per riattivare un’unità del tristemente celebre allestimento di Three Mile Island, in Pennsylvania, dove nel 1979 ebbe luogo il più drammatico degli incidenti nucleari statunitensi.
Nel complesso, quindi, la geografia del momento parla chiaro: l’energia pulita (o quasi) arriva dai piccoli impianti atomici, di dimensioni e potenza ridotti rispetto a quelli tradizionali e più semplici e veloci da costruire, in grado di generare dai 10 ai 300 megawatt di energia. Il resto da altri impianti a gas naturale. Sopra a tutto, come committenti diretti, partner privilegiati o interessati osservatori e potenziali clienti interessati a strappare contratti favorevoli ci sono i colossi tecnologici, che ne hanno bisogno per alimentare i loro impressionanti hub informatici. Secondo l’Electric Power Research Institute ognuno di questi poli pretende un consumo che varia dall’equivalente di 80mila a 800mila abitazioni. E se le aspettative su quanto e quanto rapidamente aumenterà la domanda di elettricità negli Stati Uniti variano ampiamente, uno studio recente del Lawrence Berkeley National Laboratory ha stimato che le strutture sono destinate a utilizzare fino al 12% dell’elettricità degli Stati Uniti nel 2028, rispetto al 4,4% di due anni fa.
Carbon neutrality, arrivederci
Numeri che da un lato stanno lanciando il nucleare modulare proposto da sigle come NuScale Power, Oko o Cameco e dall’altro convincendo chiunque abbia liquidità e dimensioni sufficienti – per Morgan Stanley, le centrali elettriche alimentate a gas naturale costano circa due miliardi di dollari al gigawatt – a buttarsi nel business del gas. Al tanto sbandierato obiettivo di diventare “carbon neutral” i colossi tecnologici potranno, e in certi casi dovranno, pensare oltre.