Giorgia Meloni si gioca tutto con Enrico Michetti: a Roma è in ballo la sua leadership sul centrodestra

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«Sono andato bene?». Martedì, ora di pranzo. Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, ha appena finito di rassicurare in conferenza stampa giornalisti e fotografi che no, lei non si «accolla» il candidato-tribuno radiofonico Enrico Michetti, seduto accanto a lei, per portarlo a vincere al ballottaggio a Roma contro l’ex ministro dem Roberto Gualtieri, perché Michetti è «un professionista stimato» che farà tutto da sé. E un attimo dopo lui, mister 30 % al primo turno, quello che dovrebbe ma non morde, si incarica di smentirla: «Sono andato bene?», le domanda. «Sì, sei andato bene», condiscende lei.

Bene, ma non benissimo: sempre uguale, diciamo, che è poi la vera condanna dei mediocri. Costantemente lì: tre metri sopra al colpo di sonno. Nel tripudio di «segmenti procedimentali», «macchine amministrative», «sfioccare» di nuove fermate della metro, paradossali promesse di scriversi da solo tutti i provvedimenti da sindaco («basta con lo strapotere dei capi di gabinetto!», è lo slogan, popolarissimo), inconsistenza che persino Meloni combatte da patriota, prendendo ad annuire vigorosamente, come a svegliarsi, ogniqualvolta negli occhi le si dipinge lo sguardo fisso e acquoso di chi stia per prendere sonno.

Ecco la vera lotta, il vero accollo per sostenere quello che dovrebbe essere il biglietto da visita del centrodestra a trazione Fratelli d’Italia, quello capace di riconquistare il voto di protesta attraverso l’uomo chiamato non si sa come a riconquistare periferie deluse dal populismo grillino di Virginia Raggi, e rimaste infatti drammaticamente a abitazione al primo turno, facendo lievitare l’astensionismo che ha raggiunto percentuali record. È tutta lì la maledizione di Roma, battaglia centrale per gli equilibri del futuro del centrodestra, quintessenza della tenaglia che si stringe attorno alla possibile leadership di Giorgia Meloni, colei che l’attimo indica come la più papabile nel ruolo di capa, specie dopo che il voto ha confermato il crollo nelle urne della Lega. E se Matteo Salvini, destinatario tra le principali «scoppole» di questa tornata elettorale, è stato prontissimo proprio per questo ad allestire un’aria da “Papeete bis” anzitutto incornando la delega fiscale approvata in Consiglio dei ministri (senza Lega), tentato evidentemente dal passare anche lui all’opposizione come Fratelli d’Italia, adesso è lei a doverne uscire vincitrice, però: lei che pensava che per vincere a Roma andasse bene chiunque, secondo quella che a destra chiamano «sindrome da cavallo di Caligola». E che, a parte l’ombra dell’inchiesta partita dal lavoro di Fanpage che vede coinvolto l’europarlamentare Carlo Fidanza, vicende che fanno poca differenza, per un mondo che ha digerito bunga bunga, vichinghi, igieniste dentali, batman, cene eleganti, nipoti di Mubarak, deve stare anzitutto stare attenta a questo: che i suoi elettori restino svegli.

Faraway, so close. La novità tanto annunciata è in effetti arrivata con le amministrative di domenica scorsa: dentro il paradosso di un centrodestra forte nei sondaggi e fiacco nelle urne, Fratelli d’Italia fa eccezione. Cresce. E cambia la faccia della coalizione che fu berlusconiana. Nella prima prova elettorale post Covid-19, nelle grandi città Fdi supera ovunque la Lega: a Torino, dove passa dall’1,6 al 10 %; a Bologna, dove quintuplica le percentuali arrivando al 12; a Roma, dove sfiora il 18 % (tre volte la Lega) e in pratica è secondo solo alla lista-coalizione a sostegno di Carlo Calenda (terzo il Pd). Persino a Milano, Fdi si ferma appena un punto sotto al Carroccio: 9,9, contro 10,7 %. Esattamente a specchio, la Lega vede crollare i suoi consensi, rispetto a regionali ed europee, talvolta persino sotto ai livelli del 2016: a Milano, dove oggi è a 10,7, era 11,8 % cinque anni fa (ma 18 % nelle regionali, e 27 % alle europee 2019). Uguale a Bologna: 10,3 nel 2016, adesso 7,7, ma alle europee era arrivata a 18,5. Nella Capitale, dove adesso è poco sopra il 6 %, alle europee era al 25,8. Risultati analoghi a Torino, dove si ferma poco sotto al 10, ma stava quasi al 27 % nel 2019. In breve: è come se si fosse spostato su Fratelli d’Italia il soffio di vento che ha fatto salire Matteo Salvini un paio di anni fa. Tendenza netta e rischiosa.

Così vicina, ma così lontana. Al momento Meloni rischia infatti di finire come il protagonista di un brano di Emidio Clementi dei Massimo Volume: «Prende la rincorsa, spicca il volo. Accarezza il sogno, ma non riesce a stringere la presa». Il timore, che si incunea fin dentro Fratelli d’Italia, è che appunto Meloni possa fare la stessa fine di Salvini: il successo, molto mediatico, consumato nel giro di poco, prima di poter tradurre in potere i sondaggi e i voti locali. Prima di poter agguantare la corsa per palazzo Chigi, massima e risaputa ambizione.

Una possibilità di sfioritura anticipata che, per quel che riguarda Meloni, viene dibattuta anche dentro il partito, persino tra i più solidi sostenitori della leader, tra scontento e polemica per le sue ultime scelte, a partire proprio dal nome per la corsa al Campidoglio: deciso all’ultimo momento, sì, e persino di ripiego, ma che ha comunque voluto con tutte le forze. A costo di escludere l e sue cerchie, e di scontentare l’intero mondo della Fiamma tricolore reloaded, costretto a fare campagna elettorale appresso a un candidato le cui dichiarazioni, raccontano tra mito e realtà, «vengono filtrate da ben quattro chat di whatsapp» ma che sostanzialmente, pur avendo a disposizione stuoli di persone, fa di testa sua, non studia, si affida principalmente al suo cerchio magico di Radio Radio, capeggiato dal giornalista Fulvio Focolari. Tutto ciò, ovviamente, affiora nelle chiacchiere informali. Al contrario, come da tradizione missina, in Fdi sono bravissimi a spiegare la scelta che non hanno capito. «Mettere nella corsa per Roma un candidato civico al posto di uno come Rampelli, serve a raccogliere i voti anche fuori dal recinto di questo centrodestra», spiega paziente proprio Fabio Rampelli, vicepresidente della Camera, principale escluso “politico” dalla corsa al Campidoglio. Un altro è Guido Bertolaso, l’uomo che nel 2016 si suicidò politicamente dicendo che Meloni non doveva candidarsi perché sarebbe stata troppo occupata a fare la mamma.

Il campo al momento è vasto, pure troppo. Non è nato il centrodestra moderato, alla Giancarlo Giorgetti, quello che si poteva appoggiare su candidati come il torinese Paolo Damilano, che è indietro nel ballottaggio con il dem Stefano Lo Russo ma era partito per vincere al primo turno; o sul romano Carlo Calenda, che il ministro dello sviluppo economico aveva appoggiato esplicitamente a cinque giorni dal voto. Non ha però dato la zampata nemmeno il centrodestra populista, quello che pure avrebbe molto da raccogliere dalla risacca del voto grillino, in crisi ovunque e in libera uscita, dopo la fiammata degli ultimi anni. Certamente, in questo senso, la scelta dei candidati “civici” non ha pagato da nessuna parte: come se si trattasse di una opzione fuorimoda, specie per un mondo che con una mano ha scelto di abbandonare i lidi della destra tradizionale per buttarsi sull’ambiguo sostegno di tipo libertario-no vax, con l’altro continua a fare cassa coi voti conquistati da un discendente a caso della famiglia Mussolini (stavolta record di preferenze per Rachele, sorella di Alessandra per parte di padre). Tutto il margine, a questo punto, è affidato a Meloni, che dovrebbe completare l’operazione pop alla “Io sono Giorgia”, titolo della sua autobiografia. Nelle strade funziona, sui social anche, nelle urne è ancora da vedersi davvero: il rischio, un po’ alla Giuseppe Conte che in questa tornata elettorale visto il crollo grillino ha realizzato in pieno l’endiadi piazze piene/urne vuote, è che funzioni il personaggio, più che il leader politico. E che alla fine tutta la faccenda si riduca a una gara di selfie, dirette Facebook e popolarità, mentre però le urne si fanno sempre più lontane e difficili da raggiungere.



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di Susanna Turco
espresso.repubblica.it
2021-10-08 09:35:00 ,

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