Gli stranieri che si arruolano nella Legione di difesa ucraina

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Il sito fightforua, messo online dal ministero della Difesa ucraino, dà indicazioni su cosa debbano fare gli stranieri che vogliono arruolarsi nella Legione di difesa ucraina: parla di prendere contatti con un consolato, telefonare oppure inviare una mail,  incontrarsi con l’attaché militare e firmare un contratto. Si deve essere incensurati e si deve avere il proprio equipaggiamento. Una volta arrivati nella città ucraina di Leopoli, il «punto di raccolta», si è pronti a combattere «gli occupanti russi assieme a combattenti di tutto il mondo e a soldati ucraini».

Negli ultimi giorni la Legione di difesa ucraina è stata molto paragonata alla Legione straniera francese, che conta circa 8mila effettivi, esiste da due secoli e molti italiani ne hanno fatto parte (circa 60mila in totale: oggi sono meno di 50 quelli arruolati). Fu fondata nel 1831 in occasione della conquista francese dell’Algeria, quando la Francia aveva bisogno di soldati e decise di accettare tutti gli stranieri intenzionati ad arruolarsi, ma nel corso del tempo è cambiata in maniera significativa. Oggi viene usata prevalentemente in operazioni di peacekeeping, e a differenza della Legione di difesa ucraina ha sempre operato fuori dai propri confini nazionali.

Al momento non si hanno numeri precisi su quanti stranieri abbiano svolto con successo, o abbiano iniziato, la procedura indicata sul sito fightforua. Il governo ucraino ha parlato di poco meno di 20mila persone disposte a combattere insieme all’esercito, ma sono numeri non verificabili e probabilmente gonfiati dalla propaganda. Si sa comunque che le domande sono state parecchie, provenienti da diversi paesi del mondo.

Secondo il Washington Examiners, negli Stati Uniti ci sono state 3mila richieste di adesione alla Legione, soprattutto da parte di veterani di altre guerre. Gruppi di volontari britannici sono già operativi, come testimoniano alcuni video circolati su Internet.

Sarebbero già in Ucraina 400 svedesi, mentre il quotidiano giapponese Mainichi ha scritto che 70 giapponesi stanno partendo, 50 dei quali ex membri delle Jieitai, le Forze di autodifesa giapponese create dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Sarebbero inoltre arrivati volontari da Lituania, Messico, Portogallo, Brasile, India, Georgia, Bielorussia, Polonia e Ungheria.

Richieste di informazioni sono arrivate anche all’ambasciata ucraina di Roma e ai vari consolati in Italia,  ma non si sa quante di queste manifestazioni di interesse si siano poi concretizzate. Anche perché in Italia, a differenza di altri paesi, ambasciata e consolati ucraini hanno fatto una notevole marcia indietro per quanto riguarda l’arruolamento di cittadini italiani.

Sul sito fightforua infatti, l’Italia non compare nella lista degli stati dove è possibile trovare i contatti per iniziare la procedura di arruolamento: era presente nei primi giorni successivi alla messa online del sito, quando l’annuncio era comparso anche sulle pagine Internet di alcuni consolati, come per esempio quello di Milano. Poi però qualsiasi richiamo al nostro paese era stato cancellato.

In Italia esiste infatti un articolo del codice penale, il 288, che stabilisce che «chiunque nel territorio dello Stato e senza approvazione del governo arruola o arma cittadini, perché militino al servizio o a favore dello straniero, è punito con la reclusione da quattro a quindici anni». Il governo italiano non ha mai dato il proprio consenso all’arruolamento di cittadini italiani per la legione di difesa ucraina, e quindi ambasciate e consolati rischiavano di commettere un reato importante. Il ministero degli Esteri ha inoltre ribadito più volte che qualsiasi viaggio verso l’Ucraina è assolutamente sconsigliato.

Lo scopo dell’articolo del codice penale è quello di impedire l’usurpazione di due speciali poteri che spettano esclusivamente allo stato: il potere di coscrizione militare e il potere di inviare all’estero soccorsi militari.

C’è poi un altro articolo, il 244, in cui si afferma che «chiunque, senza l’approvazione del governo, fa arruolamenti o compie altri atti ostili contro uno stato estero, in modo da esporre lo stato italiano al pericolo di una guerra, è punito con la reclusione da sei a diciotto anni; se la guerra avviene, è punito con l’ergastolo». Un esempio viene dalla vicenda giudiziaria di Andrea Palmeri, detto il Generalissimo, neofascista italiano andato a combattere nel 2014 nelle milizie filorusse nel Donbass e condannato dal tribunale di Genova perché aveva arruolato altri combattenti.

La legge 210 del 1995 in attuazione di una convenzione dell’ONU si riferisce invece all’arruolamento di chi viene ingaggiato in cambio di una corrispettivo economico, e che è quindi considerato un mercenario. Punisce sia l’arruolato sia chi lo recluta, ma per il momento non è ancora chiaro se chi andrà a combattere come volontario in Ucraina riceverà anche un compenso economico (probabilmente non si sa ancora per scelta precisa delle autorità ucraine). La legge 210 dice:

«Chiunque, avendo ricevuto un corrispettivo economico o altra utilità o avendone accettato la promessa, combatte in un conflitto armato nel territorio comunque controllato da uno Stato estero di cui non sia né cittadino né stabilmente residente, senza far parte delle forze armate di una delle parti del conflitto o essere inviato in missione ufficiale quale appartenente alle forze armate di uno Stato estraneo al conflitto, è punito, se il fatto non costituisce più grave reato, con la reclusione da due a sette anni».

Le norme che in Italia regolano e puniscono le attività di reclutamento e di combattimento in conflitti esteri sono quindi diverse e la giurisprudenza poca. In pratica sono norme molto soggette a interpretazione.

Un volontario brasiliano (a destra), arruolato nella Legione di difesa ucraina (Foto Twitter ArmedForcesukr)

L’avvocato Riccardo Radi, cassazionista, sostiene ad esempio che a commettere reato sarebbe in realtà solo chi arruola. Se un cittadino italiano, senza essere reclutato in territorio italiano, partisse autonomamente e venisse inquadrato nell’esercito ucraino non commetterebbe reato, dice Radi, che ricorda anche che «il reato di arruolamento o armamenti non autorizzati è stato applicato una sola volta, in Italia, nel 1939, per una vicenda inerente alla guerra civile spagnola».

Di parere completamente opposto è l’avvocato Nicola Canestrini, dello studio Canestrinilex, già professore di Diritto internazionale dei conflitti armati, che dice che nel caso della Legione di difesa ucraina «si parla di un vero e proprio arruolamento per una brigata internazionale. L’articolo 244 è chiaro: punisce chi, senza l’approvazione del governo, fa arruolamenti o compie atti ostili contro uno Stato estero in modo da esporre lo Stato italiano al pericolo di una guerra. Questo vale anche per chi viene inquadrato in un esercito regolare, sia che si tratti di esercito russo sia di esercito ucraino».

Secondo Canestrini, andare a combattere in Ucraina costituirebbe un reato, perché  l’articolo 288 afferma che «Chiunque nel territorio dello Stato e senza approvazione del Governo arruola o arma cittadini, perché militino al servizio o a favore dello straniero, è punito con la reclusione da quattro a quindici anni». «In un ordinamento democratico», conclude Canestrini «soltanto i poteri regolarmente costituiti dello Stato (legislativo ed esecutivo) hanno diritto di decidere sull’uso della forza».

È possibile comunque che alcuni degli aspiranti combattenti italiani tenteranno di raggiungere in maniera autonoma il «punto di raccolta» della Legione, a Leopoli, oppure di appoggiarsi ad altri paesi. La Polizia postale sta tenendo sotto controllo i gruppi che potrebbero nascere in Internet, e che potrebbero costituire ipotesi di reato. Il rischio, come ha fatto notare l’ISPI, Istituto per gli studi di politica internazionale, «è che come già accaduto nel 2014-2015 a partire per l’Ucraina possano essere anche militanti estremisti, potenzialmente pericolosi per i loro stessi paesi di origine e per altri stati».

C’è un precedente, che è diverso ma che dà però un’idea di cosa possa accadere al ritorno in patria dei cosiddetti “freedom fighters”.

Nel 2017 un gruppo di ragazzi italiani, piemontesi, andarono nel Kurdistan siriano per combattere al fianco dei curdi contro lo Stato Islamico. Erano quattro ragazzi e una ragazza. Quest’ultima entrò a far parte delle Ypj, l’Unità di protezione delle donne, tre ragazzi entrarono nelle Ypg, Unità di protezione popolare, mentre l’ultimo volontario affiancò il Tev-Dem, Movimento per una società democratica, non combattente. Al ritorno in Italia i cinque ebbero un ordine di comparizione del tribunale di Torino per la loro «spiccata inclinazione alla violenza e all’uso delle armi […] ravvisabile nei recenti viaggi in Siria a sostegno delle Unità di autodifesa, a loro volta emanazione del Pkk, un’organizzazione terroristica».

I cinque, uno dei quali non aveva nemmeno comsconfitto, vennero indicati come «pericolosi per la società» nonostante si fossero sconfitti contro lo Stato Islamico. La pubblico ministero chiese di sottoporre i cinque a due anni di sorveglianza speciale. La misura venne imposta solo a Eddi Marcucci, l’unica donna del gruppo, militante no Tav e del centro sociale torinese Askatasuna, che dal marzo 2020 è sottoposta a sorveglianza speciale. Nel suo caso la Corte di Cassazione ha ribadito che non sono necessarie sentenze definitive per «valutare se le condotte siano sintomatiche della pericolosità sociale» di una persona.





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www.ilpost.it
2022-03-11 11:05:08 ,

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