I soliti sospetti dopo trent’anni rappresenta ancora oggi l’apice di un decennio, gli anni ‘90, dove il thriller ha saputo regalarci capolavori, così cambiare pelle, prendere strade inesplorate. Ma nessuno, davvero nessuno, è all’altezza di ciò che Bryan Singer presenta quel 25 gennaio 1995 al Sundance Film Festival. Un film che ha fatto epoca.
Un capolavoro che nacque da un incontro casuale
I soliti sospetti nasce per caso sempre al Sundance, due anni prima, nel 1993, quando Bryan Singer ha presentato con successo Public Access guadagnandosi le lodi anche di lui, di Kevin Spacey, all’epoca non ancora uno dei volti più noti del grande schermo, ma sostanzialmente in rampa di lancio. La possibilità di una collaborazione diventa concreta nel momento in cui Singer e lo sceneggiatore Christopher McQuarrie immaginano cinque uomini coinvolti in un confronto all’americana. Da quell’idea meramente visiva, nascerà un film capace di riportare in auge i dettami classici del crime dei grandi autori, di rivendicare una complessità narrativa a metà tra furbo gioco di prestigio, ed il creare qualcosa di interamente diverso da ciò che il grande pubblico era abituato ad avere allora. Fatto ancora più strano, I soliti sospetti i soldi li avrà da finanziatori europei, non americani.
Solo 6 milioni di dollari dell’epoca, nessuno negli States credeva nel progetto, volevano per forza grandi star nel cast, ma attori del calibro di Robert De Niro, Al Pacino, declinarono. Singer però, oltre a Spacey, riuscì a coinvolgere Chazz Palminteri, Gabriel Byrne, Stephen Baldwin, Kevin Pollak, Pete Postelthwhite e gli emergenti Benicio del Toro e Giancarlo Esposito, che accettarono compensi ridotti. Il motivo era semplice: la sceneggiatura che McQuarrie offrì loro, era un gioiello impossibile da ignorare. I soliti sospetti fin dall’inizio nella struttura narrativa, così come nella caratterizzazione dei vari personaggi, ha un ascoltato omaggio ai grandi classici del noir e crime d’autore. Da Akira Kurosawa a Sydney Lumet, ma c’è spazio anche per Sam Peckinpah, Robert Aldrich e Billy Wilder. La natura dei dialoghi, con semplicità straordinari per composizione e ritmo, la sua struttura, si rifanno a Quarto Potere.
Ed eccoci nell’ufficio del Detective David Kujan (Chazz Palminteri), che cerca di capirci qualcosa su un massacro avvenuto su una nave nel porto di Los Angeles, assieme a Roger “Verbal” Kint (Kevin Spacey) piccolo truffatore zoppo, unico sopravvissuto della sanguinosa notte, già “salvato” dai piani alti per la sua collaborazione. Come una sorta di ragno tessitore, il film ci intrappola dentro un labirinto narrativo, dove ai ricordi di Kint si alternano le indagini, l’FBI che cerca di capirci qualcosa. I soliti sospetti ci prende per mano, ci porta dentro le vita di cinque criminali, tutti diversi per personalità, capacità, passato. Sono finiti in arresto accusati di una rapina, non sanno chi tra loro l’ha commessa, ma ciò che conta è che quell’incontro li fa diventare una banda, una di quelle pronte a tutto. Mettono a segno qualche bel colpo, poi ecco la complicazione: connivente un misterioso avvocato di nome Kobayashi (Pete Postelthwhite).
Questi si presenta, quasi come un messo infernale, a reclamare da quel gruppo di pendagli da forca il loro talento per saldare un debito, che neppure immaginavano di avere contratto, con lui, con Keyser Söze. I soliti sospetti è un film magistrale soprattutto per il world building, in pochi istanti, oltre a farci entrare come pochi altri film dentro il mondo e la mentalità criminali, riesce a farci connettere con ogni personaggio. Ma è proprio Keyser Söze il centro di tutto, la sua identità è una serie di ipotesi che il film ci mette davanti creando un mistero angosciante, tetro. Ispirato ad un vero criminale capace di uccidere la famiglia e sparire per vent’anni, Keyser Söze è un’entità malefica, una sorta di Satana invisibile che si aggira e terrorizza persino questi criminali. Dovevano assalire quella nave, in cambio avrebbero avuto la vita, dei soldi, almeno questo spiega un terrorizzato Verbal. Ma davvero è andata così?
Un colpo di scena finale che ha fatto la storia
I soliti sospetti cambia continuamente la prospettiva, ora c’è quel Detective che cerca di costruire la realtà, mette all’angolo Kint. Chi è Keyser Söze? Forse il carismatico Dean Keaton (Gabriel Byrne), il cinico Todd (Kevin Pollak), l’iracondo McManus (Stephen Baldwin)? O forse non esiste. I soliti sospetti è presago di una sensazione di sconfitta, di morte, che insegue i protagonisti, ed è incredibile come Bryan Singer riesca a farci comprendere la loro più grande vulnerabilità: sono criminali incapaci di pensare come un collettivo, di andare oltre ciò che hanno di fronte agli occhi. A mano a mano che il film procede, appare chiaro come Singer giochi con verità e menzogna, come l’insieme sia una trappola certo, ma da parte di chi? Il male è in agguato, è un male che cammina con Söze ma ha l’essenza di un demone, è un personaggio dantesco, è l’uomo nero sotto il letto.
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di Giulio Zoppello www.wired.it 2025-01-25 05:50:00 ,