C’è chi riceve l’acqua ogni 24 ore. Chi ogni sei, sette, otto giorni, per cinque ore al giorno. In Sicilia ci sono quartieri che, a ottobre, non l’avevano dal 10 giugno. La vita nell’isola è scandita dal ritmo della distribuzione dell’acqua imposta dai piani di razionamento a causa della siccità. “Tutti noi abbiamo da tempo affrontato il costo di avere in casa un allestimento apposito, come le pompe di risalita o il controllo elettronico del livello dell’acqua nel serbatoio. Forse in altre parti d’Italia non si sa nemmeno cosa siano, questi strumenti, per noi siciliani sono ormai il classico argomento di conversazione da bar”. A parlare è Giuseppe Amato che, oltre ad essere il responsabile risorse idriche di Legambiente Sicilia, è anche e prima di tutto un cittadino di Enna, una delle aree più colpite dagli effetti della siccità e anche una di quelle in cui l’acqua costa di più in Italia.
“Il paradosso è che paghiamo a caro prezzo una risorsa che non c’è”, aggiunge. Enna, insieme a Caltanissetta e Agrigento, è una delle province il cui destino si lega ad una data, che rappresenta il fine ultimo prima dell’esaurirsi delle risorse idriche disponibili: il 20 novembre. E dopo? “Dopo non si sa. Non conosciamo un piano B”.
I dati che fotografano la siccità
La siccità in Sicilia non è un’emergenza fulminea, né una scoperta recente, ma un problema che persiste da tempo. “Ottobre è il tredicesimo mese consecutivo di anomalia termica, vale a dire in cui si registrano temperature sopra la media – spiega Amato –. Così, anche le poche risorse presenti sono state erose più rapidamente a causa dell’evaporazione”. Da un lato piove poco, dall’altro fa molto caldo. A testimoniarlo sono i report mensili pubblicati dall’Autorità di bacino della Regione. Li traduciamo con Francesco Avanzi, idrologo e ricercatore della Fondazione Cima – Centro internazionale in monitoraggio ambientale: “Confrontando il livello di precipitazioni cadute in Sicilia tra settembre 2023 e agosto 2024 con quelle abitualmente registrate nello stesso periodo negli anni precedenti, emerge una mappa dell’isola che nella stragrande preminenza del suo territorio vive in uno stato di siccità severa e in alcune zone addirittura estrema”.
La mancanza di diluvio durante tutto l’anno è diventata causa di un altro problema: la scarsità di acqua stoccata negli invasi, sin dall’inizio della stagione irrigua. “In Sicilia, come in tutte le zone mediterranee, piove per lo più in inverno e quasi niente in estate – chiarisce Avanzi –. solitamente, tutti gli anni, si registrava il minimo volume negli invasi a ottobre/novembre, vale a dire dopo l’estate. Poi il livello tendeva ad aumentare, ricaricandosi con le piogge invernali e arrivando ad un massimo intorno a maggio; a quel punto cessava nuovamente di piovere e l’invaso iniziava a svuotarsi, per destinare l’acqua ai vari ambiti utili. Nel 2024 [linea azzurra del grafico sottostante, ndr], però, è mancata questa fase di ricarica dell’invaso, proprio perché è piovuto poco: ad aprile/maggio le strutture avevano un livello d’acqua paragonabile a quello con cui solitamente arrivano a fine stagione. È come se si fosse partiti a inizio estate già in deficit”.
Attualmente gli invasi siciliani hanno una capacità quasi dimezzata (-48%) rispetto allo stesso periodo del 2023 ed era già così a maggio. “La cosa che colpisce è che non si è trattato di una crisi estiva, ma nata in inverno”.
Uno scenario previsto nel 1998
Le conseguenze si riversano su ogni tipo di attività. A partire dall’agricoltura, messa a dura a prova in tutti i suoi ambiti caratterizzanti: dalla coltivazione delle olive, alle mandorle, agli agrumi, ai vigneti. Persino il grano, che non è una coltura irrigua, ma si sostenta con la sola acqua piovana, quest’anno non ha prodotto raccolto. “Per l’allevamento le cose sono andate anche peggio, perché non essendoci una capacità foraggera gli allevatori non sapevano come sfamare e dissetare gli animali”, prosegue Amato. Per molti di loro l’unica soluzione possibile si è rivelata l’abbattimento dei capi più anziani o la svendita di parte del bestiame a prezzi ribassati.
Si tratta di un quadro che Legambiente aveva in parte anticipato nel 1998 all’interno del rapporto Sicilia 2020, che oggi Amato, che ne figura tra i co-autori, considera con rammarico un’occasione perduta per fronteggiare le sfide del cambiamento climatico: “Già allora avevamo immaginato un trend di aumento delle temperature, così come l’emergenza idrica e l’acuirsi del conflitto nell’uso dell’acqua tra città e campagna. Per non parlare della desertificazione e della sua capacità di estendersi a zone che all’epoca sembravano inimmaginabili e che invece quest’anno ne sono state protagoniste in modo eclatante, come il manto vegetale delle cime montuose”.
Mancano vere soluzioni
Un altro elemento che Amato menziona del report di quasi trent’anni prima è “la necessità di adattarci, cosa che invece non è avvenuta”. La responsabilità dell’emergenza idrica è un testamento che ci si tramanda di governo in governo, ora sottovalutandolo, ora aggirandolo con interventi temporanei e non realmente risolutivi, mai davvero cercando di comprenderlo, inserendolo nella visione climatica d’insieme cui appartiene.
Il piano “pozzi e autobotti”, prospettato dal presidente regionale Renato Schifani come risolutivo, rappresenta piuttosto per Legambiente “un rimedio disperato. Oggi noi viviamo tagliati fuori dal diritto all’acqua: ogni carico di autobotte, che dispensa acqua non potabile, ha un costo di 150 euro. Sommato alla spesa media annua per le utenze idriche, che per una famiglia di tre persone si aggira circa sui 740 euro, diventa un costo esoso per i cittadini, che non ricevono alcun tipo di sostegno economico dalla Regione. Bisognerebbe essere più precauzionali: pensare a metodi alternativi nella produzione energetica, migliorare la gestione dei rifiuti, iniziare a progettare acquedotti, anziché ponti”.