Ci sono insidie nascoste lungo il percorso di attuazione del Recovery plan italiano. Oneri che stanno per scaricarsi sulle imprese, squilibri automatici nella distribuzione delle risorse, ostacoli per l’assenza di manodopera qualificata e perfino l’impossibilità di realizzare uno degli obiettivi in attesa che faccia il primo passo la stessa Commissione europea. Aspetti che emergono entrando in profondità nella missione 1 del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) – dedicata alla digitalizzazione, innovazione e competitività – e nel modo in cui è cominciata l’implementazione.
Prima regola: non arrecare danni all’ambiente
Non sarà una passeggiata rispettare quanto prescrive il regolamento Tassonomia della Ue, cioè garantire che tutte le spese finanziate siano coerenti con i principi del «non arrecare un danno significativo» a clima e ambiente, riassunti nella sigla Dnsh (“do not significant harm”). Ogni decreto ministeriale e bando relativo a misure di incentivazione alle imprese dovrà contenere questa clausola che si tradurrà in un fiume di documenti per le aziende che intendono fare domanda. Tra i più celeri a rispettare il “Dnsh principle” è stata la Simest per le agevolazioni all’internazionalizzazione che il Pnrr finanzia con 1,2 miliardi appostati per il 2021. È vero che in prima istanza basterà un’autocertificazione che attesti di essere “ecologicamente neutrali”, ma bisogna accertarsi di possedere uno sterminato elenco di documenti che variano a seconda delle spese che si presentano. Ecco solo qualche esempio tra decine: iscrizione dei fornitori alla piattaforma Raee per il riciclo, schede tecniche dei materiali e delle sostanze impiegate nei prodotti e materiali, monitoraggio del rendimento energetico delle apparecchiature elettroniche in occasione di ogni intervento di manutenzione preventiva, certificazione Fsc per almeno l’80% del legno utilizzato, certificazione dei limiti di «Global Warming Potential dei gas fluorurati applicati negli impianti di refrigerazione dei data center». E ancora, nel caso di interventi edilizi, presentazione da parte del fornitore di evidenza dell’origine rinnovabile dell’energia elettrica consumata e dei mezzi d’opera impiegati.
Documenti che, come detto, sono richiesti dalle regole Ue sui fondi Pnrr per i bandi alle imprese.
Più complessa la questione per i 13,4 miliardi assegnati agli incentivi del piano Transizione 4.0, che essendo crediti d’imposta automatici non andranno a bando. In questo caso si prospetta un complicato lavoro ex post per i ministeri dell’Economia e dello Sviluppo: calcolare sulla base dei codici Ateco la quota di crediti che spetterebbero agli “harmful sector”, i settori potenzialmente inquinanti, e sostituire la copertura con fondi nazionali.
Al ministero dello Sviluppo sono state già fatte valutazioni preliminari anche sulla distribuzione territoriale degli incentivi. Nella maggior parte dei casi – progetti su rinnovabili e batterie (1 miliardo), filiere produttive (750 milioni), startup e venture capital (550 milioni), imprenditoria femminile (400 milioni), centri per il trasferimento tecnologico (350), progetti di ricerca Horizon Ue (200), agevolazioni per la proprietà industriale (30), i decreti o i bandi delle direzioni Mise conterranno la clausola del 40% minimo di risorse al Sud. Ma è già chiaro, e sarà formalizzato nel documento che verrà discusso nella cabina di regia a Palazzo Chigi, che questa quota non potrà essere rispettata per la fetta più grande, i 13,4 miliardi di Transizione 4,0, perché sono incentivi automatici e la domanda è storicamente più elevata al Nord. Nessuna quota anche per gli Ipcei, i grandi progetti europei nelle tecnologie di punta, dall’idrogeno alla microelettronica, finanziati con 1,5 miliardi, perché le iniziative ammesse saranno quelle selezionate direttamente dalla Commissione Ue anche attraverso una procedura di confronto tra imprese europee. Va ricordato che gli incentivi alle imprese non rientrano nel computo dei 206 miliardi di spese territorializzabili tra Recovery fund e Fondo nazionale complementare, cui dunque va necessariamente applicato il 40% per il Mezzogiorno, ma è evidente che su queste due grandi voci di politica industriale il piano rischia di ampliare il divario tra imprese del Nord e del Sud.