Ingiustizia capitale nell’Italia fascista – L’Espresso

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A Palermo nel ’36, con una freddezza e una rapidità che devono avere stupito anche i sicari della mafia, Tommaso Scalia uccide tre volte, a breve distanza e senza nascondersi, rinunciando così a dichiararsi poi innocente. Anzi dirà subito di essere colpevole auspicando che gli venga inflitta la pena di morte, vale a dire la fucilazione alla schiena in vigore per i reati più gravi, inclusi quelli politici, o di tradimento. Assisto alla ricostruzione cinematografica del triplice delitto in una sera afosa, seduto in uno spazio che si spalanca tra le tante chiese del castello di Lipari, dove giovani intelligenti dell’associazione Magazzino di Mutuo Soccorso installano ogni estate una rassegna cinematografica, un cineclub all’aperto. Quest’anno seguo appunto la rievocazione sullo schermo di quel fatto di sangue realizzata, con grande intelligenza (artistica e politica) da Gianni Amelio, che alla sua opera ha dato lo stesso titolo del libro di Leonardo Sciascia da cui ha tratto il film: “Porte aperte”. Da un racconto tra i più belli di Sciascia, pubblicato nel 1987, Amelio ha ricavato quello che credo sia il suo miglior lungometraggio, ampiamente premiato nel 1990 quando è uscito nelle sale di mezzo mondo.

Verso la fine degli Anni Trenta il fascismo usufruisce delle glorie imperiali etiopiche, e dell’effimera popolarità che ne deriva. Da questa posizione di forza incontestata impone che la sua macchina giudiziaria si manifesti: quindi, sin dall’inizio, sull’affare palermitano aleggia la pena di morte. Secondo alcuni critici è un crimine casalingo, siciliano, atroce e folle, di cui è protagonista «un personaggio vissuto come quelli di Verga e sgradevole quanto quelli di Pirandello». Il regime dice che in Italia si dorme con le porte aperte. Da qui il sarcastico titolo di Sciascia e di Amelio. Era una delle massime più sinistre dell’epoca fascista: in mancanza della libertà, si teneva a sottolineare il culto dell’ordine. Ma in Sicilia, e non soltanto nell’isola, le porte che restavano aperte erano quelle della propaganda. Prevaleva allora un’ambiguità di rapporti che inquinava gesti, parole, decisioni. In questa situazione, prima Sciascia nel libro, poi Amelio nel film, danno spazio al giovane giudice a latere, Vito Di Francesco (l’eccellente Gian Maria Volonté), che si trova impegnato in un processo al quale le autorità fasciste volevano che venisse applicata la pena di morte. Lui si oppone. Si oppone alla negazione della giustizia, che è quel verdetto scontato.

Torniamo al triplice delitto. L’assassino uccide la moglie, e uccide anche l’uomo che aveva preso il suo posto nell’ufficio dal quale era stato licenziato, e, ancora, uccide l’uomo che al vertice di quell’ufficio aveva deciso di licenziarlo. E si trattava di un gerarca fascista. L’omicida è reo confesso e dichiara di avere agito con premeditazione. Si profila il delitto passionale. La moglie uccisa, ma prima violentata dal marito per sfregio, era l’amante del gerarca fascista? Questo aspetto rimane nel vago. Tommaso Scalia riconosce i fatti, non insiste sui motivi. Accoltella la moglie, dopo averla stuprata in una strada deserta tra gli ulivi, poi l’avvocato Spatafora viene abbattuto da un colpo di pistola. Perché era l’amante della moglie o perché lo ha fatto sostituire nell’organizzazione sindacale fascista, dove era un funzionario. La terza vittima sarà proprio il suo sostituto.

Il giovane giudice a latere, Di Francesco, detesta l’idea stessa della pena di morte ripristinata dal fascismo, la considera una prova di inciviltà giuridica e scava nella vita dell’imputato e delle vittime, per evitare che venga applicata. Solo un giurato, di nome Consolo, si dichiara d’accordo con lui. È un bibliofilo, che con citazioni letterarie, cerca di limitare il verdetto all’ergastolo. Ed è quel che accade nel processo di primo grado. Ma il successo costerà al giovane giudice a latere il trasferimento in una sede secondaria, di provincia. E in appello a Tommaso Scalia verrà comminata la pena di morte, subito eseguita.



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