Il chirurgo fa capolino dalla porta della mia stanza: un’urgenza. Il mio intervento è rimandato al giorno successivo.
Flashforward che vi sembrerà un flashback: dodici ore all’intervento
Le luci di Milano che si spengono. Tra poco, ci sarò io e un corpo estraneo che resterà con me per tutta la vita.
Con delle eventuali protesi, mai prese in considerazione gravemente, mi ero sempre immaginata in striminzito costume rosso che corro in slow-motion sulla spiaggia in procinto di salvare qualcuno in difficoltà in mare pur avendo le capacità natatorie di una stella marina. Ora non riesco a smettere di pensare che ci sarà una cicatrice su una delle parti del mio corpo che più simboleggia il femminile.
Frammenti esplodono nella mia testa: “Benedetto il frutto del tuo seno”; la Venere di Willendorf; prosperità; fertilità; potere generativo.
E che cosa ha generato il mio seno? Quel male che ci spaventa così tanto da non riuscire a chiamarlo per nome e che tra poche ore verrà rimosso.
Cosa resterà di me? Quali sono i confini del mio essere donna? Lo diventerò un po’ meno?
Gli occhi si chiudono.
La mattina dell’intervento
I tulipani rosa della dottoressa Alice che ravvivano il mio comodino.
Un’altra urgenza. I chirurghi che mi rassicurano ma penso che l’universo stia cercando di dirmi qualcosa: “Scappa!”. Forse, non è il giorno giusto. Potrei lasciare tutto qui, infilarmi la mia pelliccia azzurra e fuggire. Sono sicura che la stragrande i più delle persone guardandomi si chiederebbe solo se sono uscita davvero in pigiama o c’è una qualche moda Week.
L’intervento
È arrivato il momento: camice, accesso venoso, sogni d’oro. La mia amica infermiera Anna mi aveva detto di pensare a qualcosa di bello negli ultimi istanti prima di addormentarmi ma quando sono lì sono così ligia al dovere che: “Ricordati aiuola! Ricordati aiuola! Ricordati aiuola!”.
Il risveglio
Ed è così che mi sveglio gridando: “AIUOLA!” dritto in faccia a chiunque, agli anestesisti che vedo poco apro gli occhi, all’OSS che trasporta la mia barella, alle infermiere e pure ai miei genitori.
Purtroppo, tra loro non c’è il dottore che mi ha addormentata, quindi, se mi stai leggendo, sappi che l’ho fatto, ho detto “aiuola” come prima cosa.
È successo, il mio seno non c’è più e al suo posto c’è una protesi di silicone medicale di cui possiedo la carta d’identità, ma che devo imparare a conoscere, come una nuova collega di lavoro che ancora non sai se ti incasinerà le scadenze o ti risolverà quel problema alle 17,30 di un venerdì pomeriggio.
Sono cambiata e non ho ancora la percezione di quanto, di entro quali confini ma so che: non sono sola; sono ancora qui; sono viva.
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di Alessandra Salvoldi www.wired.it 2025-02-05 05:40:00 ,