Isis, il marchio del sospetto sulle famiglie private di ogni diritto

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Dei ricordi di Khoder Ali gli anni dal 2014 al 2016 non ci sono. Non parla della vita sotto l’Isis, non ricorda esecuzioni e torture, processi pubblici e punizioni corporali ai bordi delle strade. Nomina l’estate del 2014 «quando i miliziani hanno conquistato Mosul», nomina il 2016 «quando è iniziata la guerra e siamo stati liberati».
Ma il tempo tra la conquista e la liberazione per lui esiste solo nella forma della macchia che oggi sconta la sua famiglia.
I processi dei fanatici dell’Isis hanno lasciato il posto ai processi collettivi, al respingimento sociale, allo stigma.

Dopo la liberazione del suo villaggio a sud di Mosul, nella primavera del 2017, i servizi segreti iracheni hanno arrestato 50 persone, tutte sospettate di sostenere l’Isis.
Tra loro anche i figli di Khoder.

“Mio marito era un soldato dell’Isis e i miei bambini ne pagano le colpe”


Il primo imprigionato nel carcere di Kirkuk dopo essere stato segnalato ai servizi segreti. La famiglia non ha mai capito chi sia stato, ma nell’immediato dopoguerra le prove non contano, bastano le accuse.
Il dubbio vale come pistola fumante, come prova certa sebbene non verificabile.
«In Iraq non c’è niente di più pericoloso di qualcuno che indicandoti dica Isis. Basta un dito puntato e la tua vita è andata. I tuoi vicini, quelli che ti erano amici, anche i tuoi parenti possono diventare i tuoi principali accusatori».

Il dubbio come prova certa.
Così è stato anche per la famiglia di Khoder.
Dopo due anni e mezzo di prigione e di indagini il figlio maggiore è stato scagionato.
Del minore invece, rapito da una milizia sciita, non si sa più nulla dal 2017.

«Possono scagionarti, ma la pena del sospetto non finisce mai», dice Khoder, seduto sul pavimento di una casa in costruzione, che più che una casa è un cantiere ma è l’unico posto dove possa stare con la sua famiglia da dicembre, quando gli operatori del campo di Jeddah, 65 chilometri a sud di Mosul, hanno annunciato che i campi sarebbero stati smantellati.
L’Iraq continua a vivere ondate di disordini civili a causa della disoccupazione, della corruzione e della mancanza di servizi di base da parte del governo. In aggiunta l’influenza delle milizie filo iraniane sta rendendo ancora più aspre le tensioni tra gruppi sciiti e sunniti.
Lo scorso inverno il governo ha deciso di cominciare a risolvere qualche annoso problema, come il destino degli sfollati interni, ha chiuso 11 campi e ne ha riclassificati due come siti informali.

Decisione che, secondo le Nazioni Unite, ha colpito quasi trentamila persone.
Così a novembre, senza preavviso, i mukthar, i capi comunità, hanno informato gli sfollati di Tal Abta, di al-Mahalabiya e al-Jaban che il giorno dopo avrebbero lasciato i campi profughi: svuotate le tende – hanno detto – si torna a casa.
Casa di Khoder e della sua famiglia è ancora in piedi. Non c’è un ostacolo fisico per il loro rientro. Ce n’è uno più insidioso. È il rifiuto del villaggio.
Sono passati più di tre anni da quando l’Isis è stato sconfitto militarmente, ma almeno un milione di civili, per lo più sunniti, restano sfollati e le comunità di origine divise tra il risentimento delle vittime e l’onta che pesa sulle famiglie considerate vicine al gruppo.
Le cicatrici della guerra sono ancora fresche, le divisioni dei villaggi sono domande aperte, interrogativi a cui né il governo né i mukhtar sono ancora riusciti a dare risposte.
«Mio figlio parlava con i miliziani? È capitato. Hanno provato a reclutarlo? Certo, ci hanno provato. Ma con chi, dimmi, con chi non hanno provato? Pensi davvero che fossimo tutti liberi di scegliere se aderire o meno allo Stato Islamico?».
Il dubbio pesa sul destino della famiglia di Khoder ma si insinua anche nelle sue parole. E forse nasconde la ragione dei ricordi omessi e negati, nel tempo che manca nella narrazione, nell’oblio che ricopre gli anni dal 2014 al 2017.
Il cantiere, l’edificio di blocchi di cemento che divide con i nove della sua famiglia, affaccia sulla rete del campo di Jeddah. Chi è stato costretto a lasciare il campo non si è spostato molto, troppa la paura di essere arrestati al primo check point. E poi non ci sono soldi, così al mattino gli sfollati di Jaddah mandano i bambini al campo sperando che qualcuno, tra quelli rimasti nelle tende, regali loro un po’ di farina e olio.
L’elemosina è il solo modo di andare avanti.

«Sono pulito, lo sanno i giudici, lo sa anche lo sheik del villaggio. Eppure ogni volta che provo a chiamare per chiedergli di tornare a casa mi risponde allo stesso modo: Khoder, non tornare, non ci sono le condizioni».
Non ci sono le condizioni per l’ostilità delle comunità che si oppongono ma anche perché le tribù sciite, le milizie che hanno combattuto contro l’estremismo dell’Isis, ritengono che il ritorno dei sospettati possa portare alla rinascita del gruppo.
Il primo ministro Mustafa al-Kadhimi aveva annunciato lo scorso autunno che lo smantellamento dei campi per sfollati interni fosse una delle priorità del suo governo e che il rientro nelle comunità di origine dovesse essere «sicuro e volontario». Ma entrambe le premesse sono state ignorate. Le autorità hanno imposto agli sfollati di firmare dei moduli, nulla osta precompilati che attestavano la volontarietà del rientro, ma le organizzazioni umanitarie hanno definito la decisione frettolosa e pericolosa e le modalità intimidatorie.
«Hanno subito pressioni, non avevano scelta, non c’è stato nessun rientro volontario», dice un operatore di una ong locale in forma anonima per timore di ritorsioni. «Queste famiglie non hanno documenti, quindi non possono aspirare alle compensazioni per i danni della guerra, non possono accedere al mondo del lavoro e sono esposti alle vendette tribali una volta abbandonati al loro destino nei villaggi di origine».

L’arbitrarietà delle decisioni del governo iracheno espone migliaia di sfollati a un ciclo di abusi e stigmatizzazione. Sia le istituzioni irachene che quelle dello Stato autonomo del Kurdistan ostacolano l’accesso alla documentazione civile essenziale per lavorare, studiare, accedere ai benefici statali o più semplicemente attraversare i confini dei governatorati.
Lynn Maalouf, vicedirettore regionale di Amnesty International per il Medio Oriente e il Nord Africa ha dichiarato che «le autorità irachene e quelle curde dovrebbero affrontare la continua punizione collettiva degli sfollati interni come parte integrante di qualsiasi piano nazionale per la chiusura dei campi, che sono attualmente l’unica opzione per migliaia di persone. Affrontare queste ingiustizie è l’unico modo per garantire un ritorno dignitoso e non perpetuare le azioni che gettano i semi per futuri cicli di violenza».
Anche l’ambasciatore Ue in Iraq, Martin Huth, ha espresso preoccupazione, dichiarando che l’Ue sostiene un rimpatrio «organizzato e dignitoso che consenta agli sfollati interni di integrarsi nelle comunità in sicurezza e laddove le condizioni lo consentano».

Quando parla di condizioni, Huth non si riferisce solo alla preoccupazione per le eventuali rappresaglie ma anche alle infrastrutture di base che ancora, dopo tre anni, mancano nei villaggi che erano stati occupati dall’Isis.
Centinaia di abitazioni non sono state ricostruite, e così le scuole, le cliniche, e le strade.
Oggi in Iraq rimangono sfollate un milione e trecentomila persone, 182 mila nella regione semiautonoma curda.
Il campo di Jeddah che, al massimo della capienza delle cinque sezioni, ha ospitato anche 60 mila persone, estendendosi a perdita d’occhio, è ridotto a una distesa di rifiuti e lamiere.


Resti di bagni chimici, ammassi di plastica che un tempo erano tende, e bambini, nel vuoto dello spazio e del tempo, che dicono solo «noi a casa non ci possiamo tornare, perché non ci vogliono».
Qualcuno ha provato, forse, a spiegare loro così il perché tutti gli altri se ne sono andati ma loro no, o meglio non ancora.
Loro sono i più macchiati tra i macchiati. Sono quelli della sezione 5, la sezione dell’Isis. Troppo compromessi da mandare via, significherebbe condannarli a morte, troppo compromessi anche per restare. Sono quelli della sezione 5, quelli del limbo.
Rokaya Khalaf Ahmad ha 37 anni e quattro figli.
Suo marito era un ingegnere. Ha lavorato nel ministero delle finanze dell’Isis fino all’inizio della guerra, poi è andato al fronte a combattere e li è morto.
Rokaya non nasconde l’affiliazione di suo marito: era di uno di loro, lo dice con forza ma senza fierezza. Lo dice perché sa che è inutile nasconderlo.
Alla fine della guerra l’onta ha toccato anche lei, il dito puntato dei vicini ha raggiunto la sua famiglia e Rokaya e i suoi figli hanno trascorso tre anni in carcere a Tasfirat Tal Kayf.
Poi, la scorsa estate, i giudici li hanno liberati e portati a Jeddah 5.

Iraq, il soldato dal fronte anti-Isis


«Di casa nostra non è rimasto nulla, nemmeno un mattone, non il mulino, le macchine. Niente. E niente dei nostri risparmi e dei nostri documenti», dice seduta nella tenda, i figli intorno a lei.
Due di loro sono apolidi. Non hanno certificato di nascita, il che rende il loro ritorno ancora più difficile. Non sono solo privati dei servizi statali, ma Rokaya, come centinaia di altre donne, non può dimostrare che quelli siano davvero figli suoi.
«Al primo check point, se vogliono, possono arrestarmi con l’accusa di aver rapito i bambini», dice.


Per lei vivere a Jeddah, anche in mezzo ai rifiuti e le lamiere, è sempre meglio che vivere in prigione.
«Certo, non posso uscire nemmeno da qui, non sono libera di andare a prendere la farina al mercato, ma il carcere è sempre il carcere. La sera chiudono le celle e tu resti dentro. Mi dici: che te ne fai della libertà se la libertà è questa? È vivere al campo? Ogni tanto quando distribuiscono la farina preparo il pane, me lo faccio bastare».

Il figlio più grande è nato nel 2007, ha 14 anni. Ha perso i documenti, non è registrato a scuola, non può uscire da Jeddah. Rokaya sa che il suo destino è in salita, ma quello di suo figlio lo è di più.
«Questo mio ragazzo sarà sempre isolato, sa a malapena leggere e scrivere. Nessuno aiuterà un figlio maschio dell’Isis».
Famiglie ostracizzate, prive dei diritti fondamentali, donne sole e figli che stanno crescendo come una sottoclasse, dimenticati e rinnegati. Esposti al rischio dell’estremismo del futuro.



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