Kordon: una storia di confine ai confini della realtà. Intervista ad Alice Tomassini

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Alice, al pubblico presente hai parlato di un documentario “nato per caso”. In che senso?

Due settimane dopo l’inizio della guerra sono partita come volontaria recandomi al confine ucraino con l’Ungheria, uno dei principali luoghi di esodo degli oltre 7 milioni di donne e bambini che hanno dovuto lasciare il loro Paese in cerca di un posto più sicuro dove stare. E in quei giorni bui ho avuto l’onore di incontrare centinaia di persone eccezionali che stavano facendo del loro meglio per provare ad aiutare un popolo in circostanze estreme. Dopo aver capito che non avrei potuto più dimenticare quello che avevo visto, ho pensato che sarei stata più utile come regista che come volontaria, così abbiamo organizzato una squadra e iniziato a filmare. Da qui è nato Kordon.

Un’opera che rivela mestiere. Come è stato girare Kordon?

Grazie, sono felice che Kordon, come mi hai detto, ti abbia emozionata e grazie per i complimenti. Realizzare Kordon è stato molto difficile sia emotivamente sia professionalmente, ma ho avuto la fortuna di avere accanto a me una squadra di professionisti incredibili: dal direttore della fotografia Sergio Ravoni al montatore Enzo Pompeo, al sound designer Matteo Di Simone, al colorist Mauro Vicentini, dai compositori Andrea Guerra e Luca Salvadori ai produttori di Vatican Media Paolo Ruffini e Stefano D’Agostini che insieme ai produttori di Tenderstories Moreno Zani e Malcom Pagani hanno creduto subito all’importanza della storia che stavamo raccontando e mi hanno supportata in ogni momento e davanti ad ogni difficoltà. È stato messo in campo un grande lavoro di squadra dietro quest’opera che definirei “necessaria” per l’urgenza della storia che racconta.

Cinque donne, cinque volontarie ucraine, che tornano indietro per agevolare la fuga di parenti (quando vogliono lasciare il Paese, non sarà così per la madre di una di loro) e compatrioti e per portare aiuti, cinque storie tra centinaia di storie, al duecentoquarantaseiesimo giorno di guerra oggi. Come le hai scelte? E cosa dice la tua scelta su quello che è l’impegno femminile quando si tratta di mettere a terra il concetto di “pace”?

Olena, Ulianna, Anastasia, Iryna e Olena sono soltanto cinque delle migliaia di volontarie che ho potuto intercettare al confine. Ho seguito le loro storie perché le ho trovate molto forti e rappresentative: cinque donne comuni che in un momento di bisogno estremo decidono di fare qualcosa nel loro piccolo per provare ad aiutare. Penso che questo sia straordinario, perché attraverso le loro storie possiamo dimostrare che fare qualcosa non solo è possibile, ma è la cosa giusta da fare. Di fronte a sfide come queste è anche possibile testimoniare il  potere delle donne di trascendere il loro dolore e scoprire in se stesse il coraggio di diventare il principale attore di pace e aumentare la consapevolezza sull’importanza dell’aiuto, della partecipazione non violenta.

La collaborazione con Vatican Media preesisteva alla realizzazione del documentario. A cosa stavate lavorando?

La mia collaborazione con Vatican Media è iniziata diversi anni fa, abbiamo infatti realizzato insieme un altro documentario Churchbook #quando la fede si fa social, una delle esperienze più incredibili della mia vita. Ho trascorso un anno in Vaticano per raccontare da dietro le quinte la redazione social del Papa e dall’interno gli eventi più importanti che hanno segnato la presenza sui social network del magistero della Chiesa e la trasformazione del sistema comunicativo della Santa Sede dal primo tweet ad oggi. Per quanto riguarda la sinergia con Vatican Media per la realizzazione di Kordon è stato un grande onore e anche una grande responsabilità per me aver avuto la loro più totale fiducia dal primo istante, e vorrei cogliere l’occasione di questa intervista per ringraziarli.

Il titolo rispecchia il “set” di scena, prevalentemente la stazione della cittadina di Zahony, al confine tra Ucraina ed Ungheria, ma allude anche al confine che abbiamo il dovere di varcare, tra nazioni in primis, ma anche in proprio uscendo dalla nostra confort zone per aiutare concretamente gli altri. Tu lo stavi già facendo. Quanto può fare il cinema per abbattere i confini tra le persone?

Penso che raccontare una storia di “confine” come questa significhi sperare. Noi speriamo che questo inferno finisca il prima possibile. Kordon racconta una storia di umanità e resistenza: nessuna paura, forma di contenimento, controllo, respingimento; solo persone che aiutano altre persone. La nostra speranza è che questo documentario possa diventare un megafono per promuovere una lotta non violenta e per cominciare a sognare la nuova politica di accoglienza di domani.

proiezione kordon; maxxi; alice tomassini;

Vedere in sala le protagoniste ucraine sedute in platea intente a ‘guardarsi’, tra loro Masha, la bambina ‘salvata’ dalla guerra, ma che lascia il padre in patria, a combattere, è stato toccante. Proprio per i bambini scappati dal loro Paese, una tragedia nella tragedia all’interno di quella dei sette milioni di sfollati stimati dall’inizio del conflitto, per la loro infanzia “interrotta” – così evidente nella risposta della bambina alla domanda sull’età del suo peluche, “…non cresce, è un giocattolo”, la morte della fantasia… – c’è molto da fare, abbiamo visto, tra l’impegno per permettere loro di completare l’anno scolastico, iniziative di integrazione ed altro. Kordon ha il merito di sottolineare anche questi aspetti. Non solo denuncia quindi, ma anche l’indicazione di percorsi concreti da seguire nelle tue intenzioni?

Aver avuto l’opportunità di guardare Kordon alla Festa del Cinema di Roma con alcune delle protagoniste del documentario con cui ho condiviso un’esperienza che mi ha cambiato la vita é stato davvero emozionante. Penso che la forza di Kordon sia proprio nel mostrare azioni concrete di supporto, fuori di ogni violenza. Purtroppo la guerra non è finita, c’è ancora bisogno di aiuto e ce ne sarà per molto tempo. Tutti possiamo fare qualcosa, facciamolo anzi. Olena, Uliana, Olena, Anastasia, e Irina Proseguono, non si sono fermate e non si fermeranno finché ci sarà bisogno; possiamo unirci a loro per aiutare un popolo sotto assedio. Quello che stiamo per fare è utilizzare Kordon come manifesto per lanciare insieme a tantissime attiviste da ogni parte del mondo una campagna di sensibilizzazione per promuovere una lotta non violenta e per non dimenticare quello che sta ancora succedendo in Ucraina.

Abbiamo di recente visto una volta di più, con gli onori tributati ad Ennio Morricone, l’importanza della musica da film. Ben oltre l’accompagnamento, la sua potenza evocativa e l’adesione alla trama e ai significati è determinante per una pellicola. A chi ti sei affidata per Kordon e come sono nate le sue musiche?

La colonna sonora di Kordon è del Maestro Andrea Guerra e del Maestro Luca Salvadori. Hanno fatto entrambi un lavoro incredibile nella composizione delle musiche, un grande lavoro di sottrazione per poter ricreare anche attraverso la musica la dignità del dolore delle persone che abbiamo incontrato. Penso sia una colonna sonora davvero profonda, che a volte si abbandona a silenzi assordanti, intrisa di dolore, speranza, nostalgia. E che riesce ad andare oltre, oltre tutto.

Il canto intonato nel bus, la strada che scorre da protagonista, la testimonianza spontanea, non sollecitata e così cruda della donna anziana con la sua busta di medicine gialle, tutto ciò che ha portato con sé fuggendo dalla sua dimora bombardata insieme al marito, il rifiuto a lasciare l’Ucraina di una donna al telefono. Tanti momenti da brividi che hai saputo intercettare avallando un montaggio asciutto, scevro di ogni retorica, ma intenso. Cosa ti porti dietro da questa tua prima esperienza, tecnicamente parlando, e verso cosa ti ha proiettato?

Realizzare Kordon, come dicevo, mi ha cambiata. Ho raccontato in passato diverse storie di impatto sociale, ma penso che Kordon sia tra i documentari uno dei più necessari. É stato molto difficile girarlo, soprattutto dal punto di vista emotivo; la difficoltà più grande è stata infatti quella di mantenere continuamente la lucidità e fare attenzione in ogni momento a rispettare il dolore con cui mi stavo confrontando. Non avevo mai provato nulla di simile e la mia più grande paura era quella di non essere all’altezza di raccontare una storia così importante. Spero, invece, di essersi riuscita.

Credits per le foto: Emilia De Laurentis



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di Diana Daneluz
www.2duerighe.com
2022-10-24 12:55:41 ,

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