Nei miei sogni c’è un discorso solenne del presidente o del Capo di Stato Maggiore che comincia così: “La legittima e credibile funzione dell’esercito americano e degli altri Paesi da oggi in poi sarà limitata a tre punti:
a) sorveglianza anti-pirateria;
b) soccorsi umanitari;
c) Guardia costiera”.
E vorrei che questo discorso avvenisse l’11 settembre prossimo, alle celebrazioni per il ventennale dell’attacco all’America. Ma è, evidentemente, solo un sogno».
James Kenneth Galbraith, classe 1952, laurea ad Harvard e PhD a Yale, non è un pacifista dell’ultima ora né un radicale iconoclasta. È un solido economista, attualmente presidente della School of Public Affairs all’University of Texas di Austin, cresciuto a pane e politica: suo padre, John Kenneth Galbraith, considerato uno dei più grandi economisti del XX secolo, era il più ascoltato consigliere di John Kennedy, prima ancora di Truman e dopo di Lyndon Johnson al quale non si stancava di implorare la conclusione accelerata dell’offensiva in Vietnam. Lui, Galbraith Jr., ha curato amorevolmente la riedizione dei libri più importanti del padre dopo la sua scomparsa nel 2006, e ha vissuto anch’egli a sua volta la vita fra le aule accademiche e i corridoi della politica di Washington.
«La prima volta entrai nello staff di un deputato democratico che ero poco più di un ragazzo, nel 1974», racconta. A quello seguirono molti altri incarichi temporanei, sempre nell’area del partito dell’“asinello”. E sempre con trasporto e genuina fede nei valori della democrazia, «che l’America sembra aver smarrito con le sue cervellotiche guerre in Medio Oriente».

James Kenneth Galbraith
Lei ha un sogno, come Martin Luther King. Però l’amministrazione Biden fa sul serio: ha voluto che l’11 settembre del ventennale coincidesse con il ritiro dall’Afghanistan, ed entro fine anno – come hanno sancito il presidente Usa e il primo ministro iracheno Mustafa al Kadhimi il 27 luglio a Washington – sarà completato il ritiro dal Bagdad . Cosa resta di quest’esperienza?
«L’impressione e la rabbia per un colossale, straziante e inutile bagno di sangue, con un costo smisurato in vite umane e risorse economiche. In Iraq la guerra civile cova sotto la cenere (il 29 luglio due razzi Katyusha sparati da un quartiere sciita nella Bagdad orientale hanno sfiorato l’ambasciata americana cadendo in piena green zone, ndr) e tutti già tremano pensando alle elezioni del 10 ottobre. Quanto all’Afghanistan, gli americani non hanno fatto in tempo a fare le valigie e già i talebani hanno ripreso il controllo della capitale e ricominciato a far valere la loro legge sanguinaria e medievale. Tutto come prima, come vent’anni fa prima dell’11 settembre. Intanto l’Iran, che sarebbe teoricamente il vero potenziale nemico, soprattutto per Israele, è uscito più forte e compatto di prima, e il neoeletto superfalco Raisi ha già ricominciato con le sue provocazioni all’Occidente».
Però in qualche modo si doveva reagire, almeno nel caso afghano. L’attentato era stato concepito lì, o no?
«Non voglio cedere alle derive cospirazioniste. Dico solo che la parte “poliziesca” dell’intervento, quella che ha portato alla cattura di Osama Bin Laden, sulla quale pure avrei qualche dubbio, andava bene. Una vera guerra durata vent’anni è stata una follia. Per non parlare dell’intervento in Iraq. Anche lì: se c’erano dei conti da regolare con Saddam Hussein, e si può capire che ci fossero dopo Desert Storm, si poteva agire diversamente. Così si è solo gettato nel caos un Paese. Cosa c’entrava l’Iraq con l’11 settembre? Ma io queste cose non me le sono mica tenute per me: gliele ho dette in faccia ai militari, e sa com’è finita? Che in privato mi hanno dato ragione».
Com’è andata?
«Verso la fine del 2004, in piena invasione dell’Iraq, il generale Ricardo Sanchez, che era stato per i primi 14 mesi dell’occupazione (lanciata nel marzo 2003, ndr) il comandante delle operazioni a Bagdad ed era appena rientrato in patria, venne da noi in visita all’università. Mentre eravamo con tutto il senato accademico al pranzo organizzato dal nostro preside, che era stato a sua volta un ufficiale del Pentagono, fu chiesto a ognuno di noi professori di intervenire. Quando venne il mio turno feci senza troppa diplomazia alcune serrate domande sulle condizioni di civili e militari in Iraq. Vidi che il generale mi ascoltava con interesse, e gli diedi il mio biglietto da visita. Sei settimane dopo, con mia grande sorpresa, mi invitò in Germania, in una base del V Corpo d’armata, quello operativo a Bagdad, vicino Stoccarda, a tenere un discorso. E in questo discorso dimostrai in modo articolato perché la missione non aveva nessuna possibilità di successo. Alla fine il generale mi prese sottobraccio e mi confessò sottovoce che la pensava come me. Anche tutti gli altri ufficiali presenti mi salutarono con grande cordialità. Erano come sollevati nel sentire una realtà che in silenzio intuivano spiegata apertamente. In tutto questo la causa scatenante dell’11 settembre non se la ricordavano neanche».
Ma perché non c’erano speranze di successo?
«Perché erano guerre che più anticonvenzionali non potevano essere, peggio ancora del Vietnam. Non è servito a niente un esercito super-armato e tecnologico, bisognava andare a combattere casa per casa nei labirinti delle città, dove lo svantaggio è palese. A meno che non si volesse raderle al suolo come altri hanno fatto a Mosul, a Grozny, a Raqqa, ma gli americani rispettano la convenzione di Ginevra, sanno che c’è stata Norimberga, sono consapevoli che l’opinione pubblica giustamente non l’avrebbe permesso e che nemmeno lontanamente dovevano accennare a una pulizia etnica come succedeva nei Balcani negli anni ’90. Certo, ci sono stati abusi e torture, ma sono stati smascherati, stigmatizzati e puniti. La verità ve l’ho detta all’inizio: queste due guerre, non solo sbagliate ma che non si potevano neanche vincere, dimostrano l’inutilità di mantenere un imponente e costosissimo apparato militare in tutto il mondo. A meno che non si vogliano affrontare frontalmente la Russia o la Cina ma direi che questo è fuori discussione».
Una domanda all’economista bisogna farla: l’impressione dall’altra parte dell’oceano è che la crisi economica conseguente all’11 settembre, che per la prima volta nella storia tenne la Borsa di Wall Street chiusa per dieci giorni, sia stata superata in tempi in fondo brevi, sicuramente più brevi di crisi successive, quella finanziaria del 2008 e quella pandemica appena passata. Eppure l’orrore era al massimo grado. Quale fu l’intuizione giusta per permettere il rapido recupero?
«In parte, come sempre tragicamente avviene in situazioni del genere, l’economia beneficiò della corsa al riarmo in vista delle guerre, e perfino della ricostruzione degli edifici di Ground Zero. Ma sicuramente fu decisivo l’intervento della Federal Reserve: per la prima volta Alan Greenspan, che della Fed era presidente, sperimentò la strategia dei tassi d’interesse ridottissimi, fino a zero, per finanziare e sostenere l’economia. La quale, ripartendo a razzo, diede a sua volta una spinta emotiva perché il Paese si riprendesse dallo shock. Era fondamentale perché il danno morale era molto maggiore dei circoscritti danni materiali inferti dai terroristi. Certo, se si fossero ripetuti altri attentati la storia sarebbe stata ben diversa. Ancora un dettaglio, che però è importante: nella ripresa post 9/11 si cominciò a intravvedere un recupero del ruolo dello Stato in economia, che era stato del tutto obliterato nei decenni precedenti dall’abbaglio monetarista e liberista di Milton Friedman, secondo il quale le forze del mercato risolvono tutto. Niente di più sbagliato».
Si profilava la rivincita postuma delle teorie di suo padre, che è visto come il fondatore del neo-keynesismo?
«Esatto, proprio così. Mio padre da giovanissimo aveva collaborato al New Deal rooseveltiano che aveva risolto la depressione del ’29, poi aveva portato questa disciplina nelle presidenze democratiche degli anni ’60. Ma Reagan aveva buttato tutto a mare, e né Clinton né Obama erano riusciti a recuperare il valore di un intervento pubblico. Intanto le diseguaglianze si facevano stridenti in questo Paese».
Poi c’è stato l’abisso di Trump…
«Guardi che per certi versi Reagan è stato peggiore di Trump, con le sue politiche pro-business e pro-ricchi a tutti i costi. Almeno Trump ha avviato il disimpegno militare in Medio Oriente. Per l’economia, sono servite tre crisi: l’11 settembre 2001, il crack Lehman Brothers del 2008 e infine la pandemia perché si facesse strada un nuovo sano ancorché tardivo keynesismo. Ora, senza più pudori sull’intervento dello Stato, Biden sta risanando il Paese».