La strategia dell’Europa sui migranti: chiudere gli occhi e pagare la Turchia e gli altri

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Urgenza e esternalizzazione. Queste le parole chiave sulle migrazioni che emergono dal recente vertice di Bruxelles. Se è vero, riconoscono i leader europei, che le misure degli ultimi anni hanno ridotto gli arrivi e i flussi irregolari, è vero anche, dicono i numeri, che l’evoluzione di alcune rotte migratorie torna a preoccupare l’Europa che esprime una volta ancora la necessità di «vigilanza costante e interventi urgenti».

A oggi sono circa 20 mila le persone sbarcate irregolarmente lungo le coste italiane. Erano 6.500 lo scorso anno, 2.500 l’anno precedente. Un aumento del 66 per cento dal 2020, destinato ad aumentare con la stagione estiva, che allarma soprattutto i Paesi dell’area mediterranea, chiamati a gestire insieme il flusso migratorio e le scadenze elettorali.

Il Consiglio europeo del 24 e 25 giugno scorsi, che avrebbe dovuto trovare la quadra tra le esigenze dell’Europa meridionale, l’Europa di confine, e le resistenze degli altri che toccano l’apice nell’ostruzionismo del blocco di Visegrad, ha fatto slittare al prossimo autunno gli accordi sui ricollocamenti, rafforzando la dimensione esterna delle politiche in materia di immigrazione. Vanno sostenuti i Paesi terzi, è la sostanza delle intese che si stanno disegnando in Europa. Vanno sostenuti, cioè, i Paesi da cui si originano i flussi, i Paesi che ospitano migranti, i Paesi che bloccano le partenze, i Paesi che, in sostanza, proteggono i confini (sempre più esterni, sempre più lontani) della fortezza Europa.

Senza aver fatto nessun significativo passo avanti sugli accordi di ricollocamenti interni e «redistribuzione» (termini che già da soli descrivono l’approccio europeo alle persone costrette all’esilio o a migrazioni spesso forzate), l’Europa torna quindi a registrare una stasi: tutto è delegato alle relazioni tra Paesi, e i fondi europei destinati a Stati di confine (Turchia, Libano, Giordania e, forse, anche Libia) cui viene di fatto subappaltato il controllo dei flussi. Draghi non è soddisfatto ma nemmeno deluso: il suo obiettivo, l’ha ribadito al termine del Consiglio, non era ottenere un accordo sui ricollocamenti che giudica prematuro, ma trovare un’intesa conveniente per l’Italia sul lungo periodo. L’aveva anticipato alla Camera alla vigilia del vertice: «La solidarietà obbligatoria verso i Paesi di primo arrivo attraverso la presa in carico dei salvati in mare rimane divisiva per i 27 Stati membri».

La responsabilità sulle persone salvate era e resta divisiva per il premier, è dunque per lui più realistico cambiare modello che avere fretta, più concreto impegnare gli Stati europei nel finanziare l’onere dei Paesi terzi che gestire accordi bilaterali tra due o tre Stati dell’Unione. Più pratico spostare il confine a sud, pagando altri affinché contengano ciò che l’Europa non ha saputo gestire, e prendere tempo.

Non tutti però sono d’accordo a temporeggiare. Il risultato del vertice è per il premier italiano un primo passo importante, ma il Presidente del Parlamento europeo, David Sassoli, ha commentato criticamente l’esito del Consiglio definendo «moralmente inaccettabile che le questioni dell’immigrazione e dell’asilo siano legate a vicende elettorali degli Stati membri». Sassoli ha indicato poi due priorità: la prima è una riconsiderazione del meccanismo europeo di ricerca e soccorso in mare che coinvolga i Paesi, le organizzazioni umanitarie, la società civile e le agenzie delle Nazioni Unite, probabilmente recependo le indicazioni del Rapporto del Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa dello scorso marzo.

Il documento metteva in rilievo le inefficienze delle attività di ricerca e soccorso nel Mediterraneo sottolineando i profili di illegalità dei rimpatri forzati in Libia e i conseguenti trattenimenti prolungati di migranti e richiedenti asilo. La seconda priorità è un sistema di reinsediamento fondato su un appello alla comune responsabilità. Ennesimo appello inascoltato. Già all’inizio di maggio, dopo l’arrivo di 1.400 persone in una settimana a Lampedusa, l’Italia aveva chiesto aiuto all’Europa. In risposta, l’Irlanda aveva accolto dieci persone, altrettante la Lituania e il Lussemburgo aveva espresso solidarietà e intenzione ad accogliere dei rifugiati. Non è ancora chiaro quanti, non è ancora chiaro quando.

Se la responsabilità e la solidarietà si esprimono così, se i ricollocamenti su base volontaria non funzionano, e non funzionano, si sono detti al Consiglio d’Europa, tanto vale consolidare il modello-Turchia. A conclusione del vertice Ue, la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen ha dichiarato che l’Europa ha rinnovato «il sostegno pari a tre miliardi di euro di finanziamento per i rifugiati in Turchia». Si mantiene, rafforzandosi, il patto del 2016, nato come soluzione per tamponare la crisi del 2015, anno in cui un milione di persone cercò di attraversare la rotta balcanica per raggiungere l’Europa.

Un accordo controverso che destinava 6 miliardi di euro per i rifugiati siriani in Turchia, in cambio di maggiori sforzi da parte delle autorità turche per arginare il flusso diretto in Europa. Molte cose sono cambiate da allora, la Turchia, che prima che scoppiasse la guerra siriana nel 2011 ospitava solo 60 mila richiedenti asilo, ospita oggi sei milioni di migranti tra cui quasi quattro milioni di rifugiati siriani. Due milioni in più rispetto al 2016, anno della stipula degli accordi. L’Europa ringrazia e paga, sentendosi in debito con Erdogan che tiene chiusi i confini. Intanto, più di un milione di uomini siriani in Turchia non riesce ad ottenere un permesso di lavoro, e mezzo milione di bambini siriani non va a scuola ed è esposto a forme di sfruttamento lavorativo e sessuale. Lo stesso accade negli altri Paesi a cui il Consiglio d’Europa ha destinato altri 2 miliardi: Giordania e Libano. In Libano, che attraversa una crisi economica senza precedenti, il 90 per cento dei rifugiati siriani vive in condizioni di estrema povertà.

Catherine Woollard, direttrice del Consiglio europeo per i rifugiati ed esiliati a Bruxelles, ha affermato di essere preoccupata che i finanziamenti per il controllo delle frontiere impediscano nei fatti alle persone di vivere al sicuro, «se i soldi destinati al supporto sociale e lavorativo vengono destinati al controllo delle frontiere c’è un altro rischio che si finanzino di fatto delle violazioni». Tradotto, significa che è vero che i Paesi come la Turchia vanno supportati economicamente perché ospitano 4 milioni di siriani mentre da noi un intero continente fatica a ospitarne poche migliaia e reinsediarne una trentina, ma significa anche che continuare ad elargire denaro in cambio della gestione dei flussi migratori sta rendendo l’Europa altamente ricattabile. «La Turchia in un certo senso è in grado di chiedere tutto ciò che vuole dall’Unione ed è anche in grado di agire come vuole a causa della dipendenza creata dall’accordo Ue-Turchia», ha detto Catherine Woollard.

Erdogan l’ha già dimostrato nel febbraio 2020 quando ha aperto i confini occidentali del suo Paese e decine di migliaia di profughi siriani si sono ammassati verso il confine europeo mentre le truppe greche cercavano di respingerle. Allora furono proprio Ursula Von der Leyen e lo stesso Sassoli a raggiungere la penisola ellenica e manifestare solidarietà ad Atene sostenendo che la Grecia fosse lo «scudo d’Europa».

L’Europa oggi è un continente spaventato dai suoi elettori che si esprime attraverso politiche di confine, che rischiano di diventare politiche di autoconfinamento. I soldi elargiti per proteggere le frontiere stanno esasperando e isolando le politiche di Paesi frustrati da un fenomeno che andrebbe gestito e non tamponato o arginato. Durante una conferenza stampa a Palazzo Chigi, ad aprile, il premier Draghi (senza mai scusarsi) aveva definito Erdogan un dittatore di cui si ha bisogno. Oggi l’utile dittatore è protagonista su due tavoli cruciali per la gestione del fenomeno migratorio, in Turchia, ovviamente, e in Libia. Sarà difficile perciò non fare i conti con lui anche sulle coste nordafricane, dove le trattative sul ruolo militare di Erdogan in Libia sono destinate a incrociarsi sul negoziato degli accordi sui migranti. E i negoziati, si sa, hanno dei costi.

Il prezzo che paga l’Europa dopo il Consiglio del 24 giugno è di dieci miliardi. Il costo umano del Mediterraneo centrale, da gennaio, 800 morti.



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