Questa versione seriale permette a Özpetek di esprimersi all’ennesima potenza, sfoggiando un po’ tutti gli stilemi della sua carriera, dagli attori che recitano coi loro corpi scultorei alla variopinta vitalità di una “famiglia non biologica ma logica”, dai temi cardine come la sessualità, il tradimento, il misticismo, l’astrologia alla fantascienza immobiliare di terrazze sconfinate e studiatissimi appartamenti da rivista, fino ai rimandi alla natia Turchia, che qui è anche meta non solo ideale ma anche finale di un viaggio di ritorno a sé. In qualche modo il regista supera anche sé stesso, perché la formula episodica gli permette di esplorare maggiormente trame e sottotrame: lo stesso personaggio di Massimo ha uno spazio maggiore, che peraltro non fa che aumentare il suo margine di ambiguità; e poi la travagliata storia tra Annamaria (Ambra Angiolini) e Roberta (Anna Ferzetti) o ancora il passato doloroso di Serra, l’immancabile sua musa Serra Yilmaz.
Bisogna però anche dire che, al contempo, questo è anche un Özpetek ripiegato su se stesso, nel senso che poco si muove rispetto al suo orizzonte abituale: il confronto con il film è inevitabile, perché davvero questo è un adattamento per certi versi fedelissimo. Certi leitmotiv, come le poesie di Hikmet, i quadri, i bicchieri che si rompono o non si rompono, un certo amore per le tavole imbandite e il chiacchiericcio pettegolo, sempre in bilico tra l’affetto e la cattiveria, sono riproposti identici e immutabili. A volte si ha l’impressione di assistere a elementi divenuti cliché a loro volta. Il confronto col 2001 è molto ambizioso poi a livello attoriale: Scarpetta non è forse sfaccettato come Stefano Accorsi, il Michele originale, ma gioca con un magnetismo soprattutto fisico; Capotondi accoglie l’eredità di Margherita Buy con una recitazione precisa e dolente, convincente anche se ostinatamente costante, mentre Argentero ha un ruolo più marcato anche se a volte più funzionale che altro. Tra certi macchiettismi (la cartomante di Angiolini forse un pelo po’ più hippie del dovuto) e recitazioni strepitose (come quella di Carla Signoris e Paola Minaccioni), rimane l’effetto di un ensemble convincente, mai fuori fuoco.
Viene da chiedersi quindi quale sia il senso generale di questa operazione, quale il posto che, nel mare magnum dello storytelling seriale contemporaneo, Le Fate ignoranti può ricoprire con questa riproposizione piuttosto pedissequa. Da una parte la risposta è ovvia: nonostante i timidi passi avanti di questi anni (paradossalmente soprattutto da parte di qualche fiction di Rai 1), la rappresentazione Lgbtq+ nella serialità italiana è spesso ancora marginale, se non un pretesto di sbandierato progressismo; dall’alto della sua indiscussa autorialità, Özpetek è quasi costretto a ribadire, 21 anni dopo, che l’umanità queer è un dato di fatto, esiste, non ha bisogno di giustificazioni e che è attraversata dagli stessi terremoti di qualsiasi altra espressione della vita. Non c’è bisogno di intellettualismi o di opportunismi per rappresentarla. Dall’altra Le Fati ignoranti è anche un’opportunità: Disney+ la propone infatti in tutto il mondo, e questa bella storia potrà raggiungere non solo gli italiani che ancora non lo conoscevano ma un nuovo pubblico internazionale. Perché in fondo “per raccontare una grande storia d’amore non basta una vita”, e forse neanche un solo film.
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di Paolo Armelli www.wired.it 2022-04-13 14:00:00 ,