Le querce monumentali della grancia

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Settimana scorsa abbiamo accennato al rapporto intimo che sussiste fra la famiglia De Nitto e la celebre quercia vallonea di Tricase, in Salento. Oggi incontriamo un’altra convergenza, fra una famiglia numerosa e le querce di un bosco sulle colline dell’entroterra calabrese.

Nei territori interni del cosentino sono stato accompagnato a visitare una famiglia come ce n’erano una volta: cinque figli, tutti attaccati e orgogliosi alla terra e i genitori, gli zii, i nonni, una grande famiglia allargata che lavora la terra, in ogni modo possibile, praticando la pastorizia, l’allevamento e l’agricoltura, ma senza restare confinati, come forse potrebbe ipotizzare chi come me viene da fuori, per lo più dall’area delle città del nord Italia. E infatti la figlia maggiore ha studiato e lavora al Politecnico di Torino, ma quando è qui ritorna ad essere la campagnola che è sempre stata ma che non rappresenta la sua unica identità. Siamo una piccola spedizione che comprende un preside di liceo ed ex sindaco in pensione, un docente in carica, sua figlia, un poeta e dendrosofo e una guida naturalistica di lungo corso. Ovvero, più o meno, tutte persone istruite che si divertono anche, a ritrovarsi in un posto del genere, fra i boschi alti in una frazione remota nel vasto comune di Montegiordano, in una casa con uno sciame di oche che a testa alta naviga sulla terra battuta, trattori, una mano che taglia il collo di un animale, uno dei figli che rientra sotto il suo cappellaccio e in groppa ad un cavallo, con le pecore, un asinello e i cani. La pandemia sta iniziando a lasciarci più spazio, e infatti standomene qui a mangiare una fetta di anguria e le fave appena tolte dai baccelli sento ancora il bisogno d’indossare la mascherina, eppure si capisce subito che qui non è mai giunta, o comunque non li ha spaventati come ha fatto nelle città, e anche nella provincia di Torino, dove vivo.

Ma dove siamo? Questa zona è conosciuta come Foresta della Caprara. Venne donata da Federico II di Svevia nel 1221 al monastero cistercense di Santa Maria del Saggittario, a Chiaromonte, finché nel 1806 venne promulgata una legge che aboliva le proprietà feudali degli ordini monastici. L’agricoltura cistercense poteva talora assumere dimensioni rilevanti che richiedevano strumenti di gestione in grado di superare i confini dei territori adiacenti al monastero. La “grància” o “gràngia” nasceva appunto per suddividere i territori coltivati e affidarli a gruppi di religiosi che quindi si spostavano dove ce n’era bisogno. Nel corso dei secoli le grànce sono state poi acquisite da famiglie, da privati, o gestite da agricoltori per conto dei cistercensi. Ma la parola nasce per indicare gli edifici usati per la conservazione delle sementi, di un comune o di un monastero e quindi, in tempi più prossimi ai nostri, di un’azienda agricola. D’altro canto la parola  deriva da “granum”, grano.

Da diverso tempo la famiglia Blumetti, i nostri gentili ospiti, si occupano di queste terre e si prendono cura anche di alcuni dei grandi alberi che crescono indisturbati nella foresta di querce. Finite le cibarie e il vino ci avviamo ed incontriamo diversi alberi maestosi. La prima pianta di considerevoli dimensioni presenta lunghissime ramificazioni, il tronco è obliquo e pende dalla parte i cui rami e la cima si sono conservati. La grossa branca alla nostra sinistra invece è stata capitozzata. Le foglie sono piccole, è una roverella che mi lascia qualche dubbio sulla sua specie. La corteccia grigio scura. Questo primo esemplare ha un tronco che misura 350 cm di circonferenza a petto d’uomo. Poche centinaia di passi e arriviamo ad un pianoro di erbe decorate con le note accese dei papaveri in fiore.

Qui cresce una quercia dritta e alta, fra i venti e 25 m di altezza, e con un bel tronco di 5 metri di circonferenza. Scendiamo poi nel bosco e vi troviamo dapprima un tronco oramai marmorizzato della più grande quercia che c’era, caduta parecchie stagioni orsono e accanto un’altra querciona, grandi e possenti branche primarie, corteccia muschiata e un senso di potenza come possono garantire soprattutto le grandi piante che abitano la dimensione fitta del bosco. Fra le tre questa è quella che ci sorprende maggiormente. Su un ramo c’è il segno inequivocabile di un fulmine che è transitato lasciando l’inevitabile tatuaggio.

Tiziano Fratus vive in una casa davanti a un bosco. E’ autore di molti libri e medita.
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