Sono stato a Napoli qualche settimana fa, ho chiacchierato con tante persone, ho ascoltato discorsi e racconti che contraddicono una certa, deteriore, ma diffusa, narrazione della città, in bilico fra il vittimismo, la rassegnazione, l’autocompatimento. Prendete Scampia, uno dei posti più tristemente famosi del Paese. Il simbolo oscuro di Scampia erano le Vele, ambizioso progetto di architettura residenziale pubblica, trasformatosi in incubo sociale e incubatore criminale. Adesso al posto di una delle vele demolite c’è l’università dove si insegnano Scienze infermieristiche. A Scampia è sorta quella che, a detta chi se ne intende, è una delle migliori scuole di calcio della Campania, frequentata da ragazzini di ogni parte della città, Vomero incluso.
La città della conoscenza
E poi c’è una libreria, l’hanno aperta Maddalena Stornaiolo e Rosario Esposito Larossa (un suo cugino, anni fa, è stato vittima innocente in un agguato di camorra), nel cuore della zona Vele, a due passi dalla famigerata piazza dello spaccio, cupamente famosa per via di cinema, libri, cronaca nera.
Rosario e Maddalena si considerano spacciatori di cultura, vendono libri (Rosario li scrive anche) e li pubblicano con la casa editrice Marotta&Cafiero. Con un’audacia fuori del comune — probabilmente la loro cifra stilistica — hanno preso contatti con Stephen King e hanno ottenuto l’inverosimile risultato di pubblicare un suo libro, un sorprendente saggio sulle armi e sulla cultura della violenza. Il minuscolo editore Marotta&Cafiero ha dunque in catalogo un titolo di Stephen King, autore che ha venduto centinaia di milioni di copie. Questo per dire che (quasi) tutto è possibile, e che in certi posti la frase ha un significato più denso. Prendete San Giovanni a Teduccio, dove fino a qualche anno fa molti tassisti si rifiutavano di accompagnarti.
Adesso c’è la Città della conoscenza, nuovo campus universitario della Federico II; c’è la Apple Developer Academy che fornisce ai giovani strumenti avanzati di formazione professionale; c’è la Fabbrica italiana dell’innovazione, incubatore di idee e progetti di innovazione scientifica e tecnologica nei settori dell’economia verde, delle industrie culturali e creative. Prendete il rione Sanità, dove non entravano nemmeno i napoletani e che adesso registra un imprevedibile traffico di turisti. Un quartiere rinato (anche) grazie al lavoro del parroco don Loffredo e dei ragazzi della cooperativa sociale La Paranza che ha restituito alla città le catacombe di San Gennaro e, soprattutto, la percezione di un futuro diverso e possibile. Prendete i quartieri spagnoli: allegri, accoglienti, irriconoscibili rispetto alla fosca iconografia di qualche anno fa.
Un luogo di contraddizioni
Ovviamente non tutto procede nella direzione dei cambiamenti virtuosi. Moltissime cose non vanno e Napoli, oggi come ieri, rimane la città delle grandi contraddizioni; degli antipodi, verrebbe da dire. «Napoli è, senza nessun paragone, la città più bella dell’universo», scriveva Stendhal e dopo di lui molti altri hanno ribadito il concetto con analoga, legittima enfasi. «Napoli è un inferno», affermava qualche anno fa il Sun, collocandola nel gruppo delle città più pericolose del pianeta, insieme a Raqqa, Caracas, Groszny, Mogadiscio, Karachi. Una sparata da tabloid, senza dubbio. Ma indicativa, nella sua semplificazione scandalistica, di un aspetto della complessità di un luogo dove scarseggiano le mezze misure.
Perché queste dicotomie così marcate? Perché Napoli è una città che, più di ogni altra in Italia, vive di antinomie, di bagliori e di oscurità, di grandezza e di miseria? Alto e basso, sordido e sublime, popolare e aristocratico, grossolano e raffinatissimo. Tutto insieme, da far girare la testa. Come orientarsi in un territorio, fisico e metaforico, così enigmatico? Ci ha provato la letteratura a cominciare dal Decamerone di Giovanni Boccaccio e a seguire, con decine e decine di opere diversissime fra loro (impossibile citare anche solo le più importanti) fino al successo planetario di Gomorra e della saga di Elena Ferrante. Ci hanno provato il cinema e la televisione e anche qui l’elenco sarebbe interminabile. Alcuni dei titoli vanno citati, però, perché, per le più varie ragioni, hanno tecnicamente fatto la storia, non solo del cinema. Napoli Milionaria! (1950), di Eduardo De Filippo, basato su una delle sue commedie più famose; Miseria e nobiltà (1954), di Mario Mattoli, tratto dall’omonima commedia di Eduardo Scarpetta; Le Quattro Giornate di Napoli (1962), di Nanni Loy; Le mani sulla città (1963) di Francesco Rosi. Opera, quest’ultima, di sconcertante, per certi aspetti disperante, attualità a sessant’anni dalla sua uscita.
Ci ha provato la grande canzone popolare e, soprattutto, ci ha provato il teatro: poche città hanno una storia (sin dall’epoca romana imperiale) così legata al teatro. Un’essenza così teatrale. Scriveva Walter Benjamin: «I fabbricati sono usati come teatri popolari permanenti, le cui parti si dividono in una miriade simultanea di palchi animati: balconi, androni, pianerottoli, finestre, scaloni, gli stessi tetti — tutto è, insieme, palcoscenico e platea». Palcoscenico nel quale commedia e tragedia si sfiorano e spesso si confondono. E però la città raccontata da libri, film, teatro, canzoni è al tempo stesso reale ed evanescente; sfuggente fino all’esasperazione. Metti a paragone la narrazione e la cosiddetta realtà e hai sempre l’impressione che qualcosa di fondamentale sfugga e sia sfuggito, per quanto bravi siano stati gli autori. E certamente sfuggirà a te, che ti aggiri alla ricerca di un senso o almeno di una chiave di lettura.
Le tappe dell’anima napoletana
Il cibo, forse? È in questa sarabanda incredibile di cose da mangiare che si nasconde un pezzo dell’anima napoletana? Qualunque cosa significhi l’espressione «anima napoletana». C’è lo street food: pizza fritta, frittelle di pasta cresciuta, cuoppo di pesce, pizza margherita a portafoglio, crocché, panzarotti, pagnottielli. Ci sono i dolci che in alcuni casi sono diventati entità mitologiche: babà, sfogliatelle ricce, sfogliatelle frolle, pastiere, roccoco, zeppole, struffoli, susamielli, mostaccioli. E la cucina vera e propria, che trovi nei ristoranti rimasti autentici, squisita anche se, diciamocelo, non propriamente leggera: pizzelle montanare fritte, frittate di pasta, mozzarelle in carrozza, pasta alla genovese, sartù di riso, manfredi con la ricotta, pasta con le patate, polipetti affogati, zucchine alla scapece, gateau di patate.
Conviene mettersi a camminare di buon passo per elaborare tutto questo materiale. I posti da vedere, inutile dirlo, sono svariati, a cominciare dal lungomare con la sua inaudita, lancinante bellezza a qualsiasi ora del giorno e della notte. Ma poi, in un elenco a perdifiato: Galleria Borbonica, Palazzo Mannajuolo, Palazzo dello Spagnolo, Palazzo Zevallos Stigliano, Palazzo Penne, Palazzo Donna Anna, Palazzo Petrucci, Palazzo Doria D’Angri, Palazzo Cellammare, Palazzo Carafa della Spina, Palazzo Spinelli di Laurino, Palazzo Venezia, Palazzo Petrucci, Palazzo Marigliano, Palazzo Saluzzo di Corigliano, Parco Virgiliano, Palazzo Reale, Museo delle Arti Sanitarie, Museo di Capodimonte, Chiesa e Chiostro di San Gregorio Armeno, Mercato di Pignasecca, Scavi di San Lorenzo Maggiore, Castel dell’Ovo, Quartiere delle Quattro Fontane, Spaccanapoli, Complesso monumentale di Santa Chiara, Teatro di San Carlo, Cappella San Severo, e si potrebbe continuare ancora a lungo.
Questo in superficie. Ma Napoli, a ben vedere, è una città che forse si comprende solo esplorandone gli inferi. Non si tratta (solo) di una metafora. La visita a piedi della Napoli sotterranea è un’esperienza davvero unica, un viaggio quasi metafisico a quaranta metri di profondità tra cunicoli e cisterne, in un percorso storico millenario. Un vero e proprio viaggio nel tempo dai resti dell’antico acquedotto greco-romano ai rifugi antiaerei della Seconda guerra mondiale.
Altra tappa imperdibile sono le Catacombe di San Gennaro, nel Rione Sanità. Quelle recuperate, restituite alla città e gestite dalla cooperativa sociale La Paranza, di cui dicevamo. Esse si compongono di tre livelli sotterranei, in cui affreschi e mosaici si alternano alle tombe e agli ossari, in uno scenario di enorme suggestione. Ma a proposito di ossari: un posto se possibile ancora più irreale, sorprendente ed evocativo è il Cimitero delle Fontanelle, anch’esso nel quartiere Sanità. Esso accoglie, in piena vista, i resti di circa quarantamila persone, vittime della grande peste del 1656 e del colera del 1836. A immaginarselo, parrebbe uno spettacolo lugubre e inquietante. Invece esso genera uno strano, incomprensibile senso di serenità. In pochi posti ho avuto, in modo così intenso, il senso della storia come risultante — l’integrale, verrebbe da dire usando un’espressione presa dal lessico del calcolo — di migliaia e migliaia di vite anonime e dimenticate, o mai ricordate. In poche occasioni e in pochissimi posti ho avuto la percezione così intensa di un viaggio nell’intimità della storia. Nel silenzio molteplice del luogo c’è una potenza straordinaria di narrazione, una presenza tangibile di esistenze svariate eppure individuali. Si pensa alle vite vissute, agli amori consumati, alle tragedie attraversate e si prova un senso profondo e commovente di connessione a quella che Bertrand Russel chiamava «la grande corrente della vita».
Fra Capri e Napoli, Walter Benjamin, uno dei maggiori filosofi del Novecento, visse una travolgente storia d’amore con l’affascinante Asja Lacis, attrice, regista teatrale, drammaturga e rivoluzionaria. Dal sodalizio sentimentale e intellettuale fra i due, nacque uno scritto a quattro mani su Napoli, uscito nel 1925 sulla Frankfurter Zeitung e recentemente pubblicato in traduzione italiana con il titolo Napoli porosa dal piccolo editore napoletano Dante & Descartes. Il concetto di porosità è di enorme suggestione e allude a un rapporto dialettico tra categorie spaziali e temporali apparentemente contrapposte. Porosità è «compenetrazione di giorno e notte, rumore e silenzio, luce esterna e buio interno, strada e domicilio… ciò che consente a strutture e vita di interferire continuamente in cortili, palazzi arcate e scale». Compresenza necessaria e fisiologica degli opposti e delle contraddizioni.
Dante & Descartes è la casa editrice di Raimondo e Giancarlo Di Maio, padre e figlio, appassionati librai e bibliofili titolari di due sedi in via Mezzocannone e in Piazza del Gesù. Giancarlo ha avuto un momento di celebrità quando ha salvato la sua libreria dallo sfratto con un crowdfunding — «A Piazza del Gesù Nuovo non volava una carta» — in cui il pubblico versava contributi rimborsabili in libri. Adesso, sulla scia di Lawrence Ferlinghetti — ideatore della leggendaria City Lights Bookstore di San Francisco — pensa di dare vita a una fondazione per vincolare la destinazione d’uso dei suoi locali. Per far sì, in pratica, che dove ha aperto la sua libreria ci sia per sempre una libreria, anche quando non ci sarà più lui a condurla.
I Di Maio fanno un’editoria elegante, alla ricerca di oggetti letterari preziosi e sconosciuti. Oltre a Borges, Anatole France, Chesterton, Sartre, Erri De Luca, Domenico Rea e molti altri, hanno pubblicato Louise Glück, vincitrice del Nobel per la letteratura nel 2020. Un piccolo, fondamentale dettaglio: l’hanno pubblicata nel 2019 quando non aveva ancora vinto il Nobel e in Italia era del tutto sconosciuta.
E poi, appunto, la Napoli porosa di Benjamin e Lacis. Compratelo e leggetelo. Per cercare di afferrare l’inafferrabile, perché «porosità significa non solo, o non tanto, l’indolenza meridionale nell’operare, bensì piuttosto, e soprattutto, l’eterna passione per l’improvvisare… dove il definitivo, il caratterizzato vengono rifiutati per conservare lo spazio vitale capace di ospitare nuove e impreviste costellazioni».
[email protected] (Redazione Repubblica.it) , 2024-01-20 18:42:37 ,www.repubblica.it