Triage, tavolo B04, numero V697. Tavolo D03, numero V701. Il tabellone ruota veloce codici e numeri come lo schermo di arrivi e partenze alla stazione. Anzi ruotava, fino a domenica, quando è comparso l’ultimo checkout per l’ultima chiamata dell’ultimo paziente.
La Nuvola di Fuksas, gigante d’acciaio e vetro dall’anima leggera nel cuore dell’Eur di Roma, ha chiuso il suo hub vaccinale, tra i più grandi che ha avuto l’Italia nella battaglia contro la pandemia: 536mila somministrazioni di vaccini anti-Covid in tutto, che fanno 2.500 al giorno a volerle dividere equamente senza contare le flessioni domenicali o estive e la pausa di metà marzo, quando AstraZeneca venne sospeso dall’Aifa. Chiude come stanno chiudendo tutti i grandi centri vaccinali, ora che l’80% quasi dei cittadini è vaccinato. Missione compiuta.
In mezzo, tra l’inaugurazione e la chiusura, tra la prima e l’ultima puntura, sono passati sette mesi. E in sette mesi migliaia di volti, di voci, di storie, di speranza, di luce.
“Era un posto bello dove stare, di una bellezza profonda che si è dimostrata compatibile con la più terribile delle emergenze perché non è vero che ospedali, Asl e presìdi sanitari debbano essere brutti”, racconta Marco Delogu, fotografo e curatore, che nei 3.700 metri quadrati della Nuvola ha passato lunghe settimane per scattare una galleria fotografica in mostra dal 30 settembre. Si chiama “33 ritratti di Nuvola”, “un numero medico, meno dello 0,01% delle persone che sono state vaccinate in questo spazio nato per altro e diventato il luogo sicuro, pubblico, efficiente, per un rito collettivo alla ricerca di un mondo migliore”.
Questo appuntamento di massa vaccinale, nient’affatto scontato, è diventato anche un documentario dello stesso Delogu, figlio di un medico, cresciuto tra le strade dell’Eur: “Giorni di Nuvola” è il titolo. È da lì, dall’alto, che plana la luce, su un drone che sorvola gli spazi vuoti che pian piano si riempiono, in un crescendo di voci che riconquistano gli spazi, si riprendono la vita con i vaccini.
Ci sono gli avvocati dello Stato, i filosofi, i consiglieri di municipio, gli artisti pop, i sacerdoti di Centocelle, i preti della Costa D’Avorio, i commercianti del generone romano, i militari. La liceale vaccinata “per riabbracciare la migliore amica senza che la prof ci guardi male”, e la prof che voleva “dare un esempio, anche a abitazione, ai miei figli, per senso civico”; la suora che racconta alle consorelle all’estero “che il vaccino è gratis e di tutti”, e la negoziante “emozionata di partecipare a un appuntamento collettivo”. Singole identità di un grande popolo passato di qui.
“Si dice che Roma è provinciale e invece ogni giorno la Nuvola diventava un luogo dove la diversità era sempre più sorprendente – racconta Delogu – Ho visto prima gli anziani, poi una generazione di sessanta e settantenni, e poi l’età che lentamente si abbassava e insieme si alzava il numero di persone di etnie e religioni diverse”. Un ciclo della vita al contrario, dai più vecchi ai più bambini. E in mezzo a questo scorrere di facce, più di 140 operatori sanitari tra medici e infermieri; volti che, turni a parte, non sono mai cambiati.
Uno dopo l’altro davanti a Delogu fatto il vaccino si abbassano le mascherine – chirurgiche, militari, rosa, nere, a fiori, con la Gioconda. “È la liberazione – dice Delogu – da una battaglia non ancora finita ma che qui alla Nuvola si è chiusa e speriamo tutti non cominci più”.
È stato un battesimo sanitario e un incontro con la città. “Mi sono vaccinata, ho visto la Nuvola” si sentiva dire a Roma. Gli spazi sono tornati vuoti, per una nuova vita: Patti Smith, il G20. “Ora per superare la paura e l’ansia post pandemia abbiamo bisogno di socialità, di cultura. Torniamo a ospitare grandi eventi congressuali e culturali – spiega Antonio Rosati, ad di Eur Spa – Partiamo con la mostra e il documentario sul nostro centro vaccinale che crediamo abbia dato un contributo rilevante nella percezione della sicurezza vaccinale. Ne usciamo più forti ed è il giusto tributo a coloro, sanitari, operatori, dipendenti, che hanno prestato un servizio di cui essere orgogliosi”.