La biografia, ossia il racconto di una vita, acquisisce senso a partire dalla fine, quindi dalla morte. Quando la morte riguarda una persona cara ci permette di guardare indietro, attraverso un moto introspettivo e di ricercare il proprio io.
Nel cinema contemporaneo italiano troviamo tre pellicole molto intense che trattano questo argomento: Mia madre (2011) di Nanni Moretti, Marx può aspettare (2021) di Marco Bellocchio ed È stata la mano di Dio (2021) di Paolo Sorrentino.
Si tratta di tre storie diverse incentrate sull’elaborazione del lutto di una persona cara, le quali attingono da esperienze intime di ogni regista.
L’elemento psicanalitico che scorgiamo in questi film emerge dalla volontà di autoanalisi degli autori, che hanno un’urgenza di ritrovarsi e di rivelarsi al pubblico per ciò che sono a partire da quell’esperienza traumatica.
L’intento di aspirare alla verità è ravvisabile nella scelta di narrare eventi estremamente personali, ma perde il suo potere dal momento in cui il mezzo utilizzato, ossia la macchina da presa, è per sua natura finzionale.
In queso modo l’accento posto sulla vita individuale, sulla personalità, perde realismo perché diviene rielaborazione cinematografica, ma permane come traccia artistica di un’esperienza privata.
L’Io frammentato nella filmografia di Moretti si manifesta come una forma di resistenza all’omologazione culturale, di dissenso e di ideazione di una nuova soggettività. Per lui, come per Bellocchio, il fenomeno della narrazione di sé si concretizza attraverso un processo continuo che ci guida a rintracciare il profilo personale in quasi tutte le opere filmiche dei due autori.
Nel caso di Sorrentino è, invece, l’urgenza di comprendere se stesso, tramite le proprie vicende autobiografiche, a muoverlo verso uno sdoppiamento tra il sé che vuole comprendere e il sé che deve essere compreso.
Bellocchio, il passato che tormenta
Partendo da Bellocchio, scopriamo come il trauma della perdita può trasformarsi e dare vita ad un oggetto intellettuale e creativo, dopo averci costretto a rivedere il mondo da un’altra angolazione.
In Marx può aspettare il regista, nonché uno dei protagonisti della storia, rielabora il lutto del fratello suicida avvenuto a soli ventinove anni insieme ai suoi fratelli e alle sue sorelle, in un’analisi lucida.
I protagonisti parlano alla camera manifestando forme di auto-rimprovero, sensi di colpa e interrogativi per quel che tutti loro avrebbero allora potuto fare meglio se si fossero comportati in un altro modo. Un percorso doloroso, quello di rivivere il lutto e i momenti antecedenti, che si fa confessione aperta dagli intenti rielaborativi.
Le disattenzioni e le incomprensioni che hanno portato Marco Bellocchio (come del resto gli altri componenti della sua famiglia) a non comprendere mai suo fratello nonché gemello Camillo, diventano colpe e poi spunti su cui riflettere.
La rivoluzione comunista dell’epoca non è stata per Camillo l’antidoto al suo male di vivere, come poteva esserlo per Marco, lo si evince infatti dalla frase pronunciata proprio da Camillo che dà poi il nome al film “Marx può aspettare”.
Attraverso le memorie, i filmati, le fotografie e i racconti dei familiari emergono tanti tratti della personalità del fratello suicida e tanti interrogativi.
La conflittualità familiare e il senso di rivalità hanno causato uno sdoppiamento in Camillo, che lo ha frammentato interiormente fino a farlo arrivare ad un cortocircuito estremo: il suicidio.
Per il regista questo documentario diventa la possibilità di ricomposizione identitaria attraverso la narrazione del fratello e della sua morte.
Moretti, autobiografico per necessità
Gli alter-ego di Moretti nei suoi film sono l’espressione del suo narcisismo ma anche della sua frammentazione identitaria. Il suo io è sempre riflesso nei personaggi d’invenzione, talvolta grotteschi ma pieni di vitalità.
Un’attività inarrestabile che il regista mette in atto per dare un valore alla propria esistenza e per non rimanere immobile, dondolando tra indignazione, partecipazione e critica, e contrastando sempre la minaccia della perdita di senso.
Moretti affronta il tema del lutto in La stanza del figlio e Mia madre, nel secondo, però, aggiunge una parte ancora più intima di realtà, destreggiandosi tra un livello esistenziale ed uno creativo.
Mia madre, evoca già dal titolo un dramma del tutto personale; l’aggettivo “mia” è un rafforzativo che il regista utilizza per connotare in maniera più enfatica il suo attaccamento alla persona cara deceduta.
Tra i paradigmi che Moretti rompe e al contempo ripete troviamo quello di disperdere l’identità, autoriale e attoriale, nei suoi molteplici protagonisti. In questo film sceglie di diluire il suo mestiere di regista-attore in Margherita (la sorella di Giovanni-Moretti che condivide il lutto della madre) e in altri personaggi, ai quali affida le nevrosi, le ossessioni, le insicurezze e le reazioni, tanto violente quanto comiche, tipiche della sua essenza.
Per Margherita la dimora materna è un nido dove poter ritrovare il calore familiare e dove è accumulata tutta la sua memoria, mentre l’ospedale e il set diventano ambienti esterni, luoghi di transito.
Lei non sa come stare accanto alla madre perché si sente fragile e impotente, viceversa Moretti le rimane accanto, ponendosi in ascolto e mostrando grande cura verso l’altro. Come in Tre piani il regista-attore rimane nello retrovie, in un percorso di maturazione artistica che lo rende più stabile, quasi immobile.
Dopo un periodo di estraniamento dalla realtà, dovuto al lutto, Moretti attore (e probabilmente anche persona) riprende in mano la sua vita, pur rimanendo fortemente legato alla figura materna.
Sorrentino, il cinema come terapia
Il lutto che colpisce Sorrentino da adolescente quando perde entrambi i genitori a seguito di un’esalazione da monossido di carbonio nella loro dimora di vacanza in Abruzzo.
È stata la mano di Dio è un ritratto familiare caldo e accurato nel quale il regista inserisce il dramma della perdita, che lo porterà a cambiare completamente il suo modo di vedere la vita.
La scrittura autobiografica ha una funzione riparatrice perché è ripetitiva e correttiva, dal momento in cui lascia fluire il trauma del ricordo, lo ripete, lo rielabora e infine lo reinventa.
I ricordi sono difficili da scrivere o immortalare visivamente per questo il supporto cinematografico è fondamentale, perché riesce a fondere la realtà e la finzione.
La mano di dio di Maradona è la mano che lo ha salvato dalla morte, mentre sarà il cinema a salvare il protagonista (Fabietto, l’alter-ego di Sorrentino) dalla dispersione di sé dopo il lutto.
Sacro e profano vengono fusi in un unico racconto, che è ricercatamente puro.
Nel finale Fabietto-Sorrentino viene invitato a non disunirsi, a raccogliere i pezzi di un’esistenza lacerata dalla perdita, per rimettersi in movimento.
Per ricominciare a vivere in assenza di figure genitoriali e riconoscere il bisogno di trovare punti di riferimento nuovi, intraprendendo e sperimentando in maniera autonoma un viaggio di crescita personale.
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di Veronica Cirigliano
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2022-11-03 13:25:19 ,