marco damilano mario draghi – L’Espresso

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Avanza una Grande Riforma di fatto, con il possibile trasferimento del presidente del Consiglio Mario Draghi da Palazzo Chigi al Quirinale alla fine del mandato di Sergio Mattarella nel febbraio 2022, senza dibattito nel Paese. Lo abbiamo scritto nell’editoriale della settimana scorsa: la sola eventualità che il passaggio possa avvenire condiziona le mosse di tutti gli attori politici e, senza che neppure se ne sia esplicitamente parlato, sta già provocando i suoi effetti sui partiti e sulle loro leadership.

Il centro-destra unito raccoglie nei sondaggi il massimo del consenso elettorale, ma il suo attuale assetto è già superato. Matteo Salvini prova a costruire un nuovo partito nato dall’incrocio tra la Lega e Forza Italia, come fece Silvio Berlusconi in una domenica di autunno, il 18 novembre 2007, balzando sul predellino di una Mercedes in piazza San Babila a Milano. All’epoca Gianfranco Fini salì a bordo, dopo aver detto che il Cavaliere era arrivato alle «comiche finali», e Pier Ferdinando Casini restò giù, la Lega neppure fu corteggiata perché era un’altra storia. Grazie a quella mossa di Fini, Giorgia Meloni si ritrovò a 31 anni ministro del governo Berlusconi e leader del movimento giovanile del Popolo della Libertà, la creatura politica che sembrava destinata a governare per decenni e che si dissolse in meno di un lustro. Oggi, invece, è la Meloni a restare fuori, mentre il Predellino di Salvini raccoglie schegge centriste di ogni tipo. Il Capitano leghista si impegna a buttare giù qualche chilo di sovranismo, come si fa con la pancia prima di andare al mare, e a mostrare una linea moderata. Ma l’operazione Salvini va presa molto sul serio. Nel 2007 il Pdl di Berlusconi fu lanciato un mese dopo le primarie che avevano eletto segretario Walter Veltroni, l’atto fondativo del Pd. Il sistema politico si organizzava in un assetto bipolare. Oggi è la destra che anticipa la trasformazione che coinvolgerà tutti i partiti: i nomi, i simboli, le forme.

Sta già accadendo al centro dell’attuale Parlamento, dove c’è un cratere chiamato Movimento 5 Stelle. Il divorzio di M5S dall’associazione Rousseau non è certo una Bad Godesberg, anche perché nessuno ha capito quale fosse la posta in gioco, a parte le quote arretrate che restavano da versare a Davide Casaleggio, ma è comunque un taglio del cordone ombelicale, viene recisa la radice da cui è tutto cominciato. L’albero, già rinsecchito, andrà alimentato e non basteranno il potere e l’opportunismo per recuperare i consensi perduti e mantenere gli attuali. La leadership di Giuseppe Conte, per ora, ha fatto fatica a decollare: l’avvocato è un campione nelle mediazioni e paralizzato quando si tratta di decidere. Lo descrivevano così ai tempi dei Dpcm, nella fase iniziale della pandemia nel 2020, quando dalle sue scelte dipendeva la vita quotidiana di milioni di italiani. Ancora di più oggi che è costretto a pattinare tra scissionisti, elenchi di iscritti da trasferire da una piattaforma all’altra, tribunali che indicano il capo politico del Movimento. Beppe Grillo ha perso la voce dopo aver urlato in difesa del figlio, Davide Casaleggio ha fatto la fine di Palladineve nella orwelliana fattoria degli animali: il principio che uno vale uno è stato spazzato via dal nuovo verbo, uno e alcuni valgono più degli altri. Di M5S, così come lo abbiamo conosciuto tra il 2013 e il 2018, non resta più nulla. Ma Conte da un lato e Luigi Di Maio dall’altro si candidano a entrare nella fase successiva, con un nuovo simbolo e un nuovo abito.

Nella Prima Repubblica c’era il partito-Stato, la Dc inamovibile dal governo. Nella Seconda Repubblica questo ruolo è stato in gran parte occupato da Silvio Berlusconi: «Io sono l’unico “incontournable”, tutti gli altri sono tutti “insortibles”», dissealla vigilia del Predellino, su un precario barcone sul Tevere che ospitava una caotica manifestazione, roteando la mano, inventando un neologismo: lui era l’unico che non si poteva aggirare, al contrario degli altri che invece non potevano fare senza di lui. Negli ultimi dieci anni il ruolo di partito del sistema è stato occupato dal Pd: senza aver mai vinto le elezioni ha partecipato a tutti i governi dal 2011 a oggi, con l’eccezione del Conte uno nel 2018-2019.

Il segretario Enrico Letta ha dichiarato di voler chiudere la stagione del Pd partito del potere senza i voti, ma se tutto muta è impensabile che il centro-sinistra resti fermo. Il cambio del Pd è il punto di arrivo delle agorà democratiche, le assemblee on line convocate nelle prossime settimane per volontà del segretario, aperte anche ai non iscritti al partito. Non ci sono solo i frammenti delle scissioni precedenti da riportare dentro lo stesso partito, operazione complicata. Più facile farlo con Pier Luigi Bersani e Roberto Speranza, che hanno subito la dolorosa perdita del galantuomo Guglielmo Epifani. Ma con Carlo Calenda si è persa l’occasione di ricostruire un progetto comune a Roma. Più che l’identità degli interlocutori e dei compagni di strada, il Pd deve sciogliere i tre nodi di sempre: la sua identità culturale, la rappresentanza sociale, l’organizzazione. Chi sei, chi vuoi rappresentare, con quali strutture sul territorio e sulla rete intendi farlo.

Non è l’unico partito a essere chiamato a questo percorso. Le svolte politiche sono ormai una questione pragmatica, funzionale: «I cittadini vogliono unità, parlare con una sola voce è meglio che parlare con decine di voci», ripete Salvini. Nessuna elaborazione di pensiero ha preceduto la proposta della federazione di centro-destra, nessun manifesto, nessun documento programmatico. E nessun partito ha ancora elaborato un’idea di sistema: la legge elettorale, l’assetto istituzionale dopo il taglio dei parlamentari di un anno fa, bisogna ripescare l’intelligenza di Claudio Martelli sull’Avanti per trovare la suggestione di una Camera unica, un Parlamento con 600 deputati che superi il bicameralismo. La riforma della giustizia a colpi di referendum è uno spot, una vendetta contro i magistrati, non è un progetto. Si taglia senza ricucire. E di taglio in taglio il sistema affonda.

Eppure in palio c’è questo: il ruolo di partito-chiave del sistema che uscirà dal terremoto politico 2021-2023. Una rivoluzione guidata dall’uomo di Palazzo Chigi che potrebbe trasferirsi al Quirinale. In questi mesi si è assistito a un copione obbligato. Draghi con la sua ristretta cabina di regia che decide, nomina, governa, i partiti che litigano. Salvini candida la Lega neo-moderata a governare nei prossimi anni, anche con Draghi al Quirinale o a Bruxelles come presidente del Consiglio europeo con i reali poteri di un premier sovra-nazionale, in un’alleanza che riscriverebbe gli assetti in Italia e in Europa. E finirebbe per strappare al Pd guidato dal super-europeista Letta perfino il ruolo di interlocutore privilegiato delle istituzioni di Bruxelles.

Il nuovo Sistema cerca il suo partito di riferimento. E i partiti cercano di adeguare le loro forme e strutture al nuovo Sistema. Tutto questo avviene senza dibattito pubblico, senza partecipazione, nel clima glaciale del laboratorio. Sul precario stato di salute delle nostre istituzioni continuiamo il dibattito aperto sulle pagine dell’Espresso con l’intervento dello storico Giovanni Orsina . E proviamo a rimetterlo in terra con i volti di due giovani abitanti della nostra Italia, Seid Visin e Saman Abbas. Due casi di cronaca, come si dice con una espressione disarmante e infelice, che parlano della qualità del nostro dibattito pubblico. Seid Visin con il suo urlo di aiuto non può essere digerito e santificato come un agnello sacrificale per ripulire la coscienza di un Paese incapace di riconoscere allo specchio il suo razzismo ordinario, quotidiano, come scrive Djarah Kan. Saman Abbas ha gridato, ha denunciato, ha visto cosa le stava per accadere, ma non è stata ascoltata fino in fondo, è stata lasciata sola. E poi è stata lasciata sola di nuovo, dopo la sua scomparsa, abbandonata alla strumentalizzazione della destra e all’indifferenza dei progressisti, dei sinceri democratici e delle sincere democratiche, della sinistra . «Ogni essere grida in silenzio per essere letto altrimenti. Non essere sordi a queste grida», ha scritto Simone Weil. Seid Visin e Saman Abbas, nella loro diversità, hanno ognuno per parte sua gridato in silenzio per essere riconosciuti. E nel riconoscimento essere protetti, difesi, custoditi. La democrazia italiana, che è un insieme di territori, istituzioni, comunità, opinione pubblica, non può restare sorda a quel grido. O perde di senso.



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