di Anna Lisa Bonfranceschi
Ci risiamo. Periodicamente arrivano annunci di ritrovamenti strani su Marte. In realtà la stranezza sta nel fatto che si tratta di cose assolutamente normali: oggetti, figure, che somigliano a qualcosa che conosciamo bene e che vediamo in rocce o montagne plasmate da fenomeni erosivi nel tempo proprio in virtù del fatto di averlo già visto. Un fenomeno noto come pareidolia e su cui ci si interroga da tempo. L’occasione per farlo ancora stavolta è l’avvistamento di un occhio su Marte catturato dalla sonda Mars Express dell’Esa. Ma pochi giorni fa ad attrarre l’attenzione sul Pianeta rosso era stata l’immagine di quella scambiata per una porta ricavata nella roccia, stavolta fotografata dagli occhi del rover Curiosity della Nasa.
Ma la storia dell’esplorazione spaziale, dicevamo, è piena di esempi così. Sin da quando, ben prima di spedire rover su Marte, la sonda Viking 1 della Nasa catturò l’immagine di una faccia sul pianeta. Era il 1976, e quella foto dove le ombre creavano la percezione di una vera faccia completa di tutto, divenne uno degli esempi più famosi del fenomeno della pareidolia.
Spiegarlo, come vi raccontavamo anche tempo fa, chiama in causa diversi aspetti del nostro modo di osservare ma soprattutto interpretare la realtà che ci circonda, profondamente legato alle nostre esperienze. In sostanza, secondo gli esperti, quando vediamo qualcosa il nostro cervello cerca di identificarlo e lo fa sulla base di modelli pre-esistenti che somigliano a quanto osserviamo, in una sorta di economia di tempo e di ottimizzazione delle risorse cognitive.
Così, nel corso del tempo, abbiamo davvero visto la nostra vita proiettata ovunque nello spazio (e non solo nello spazio). Marte però è da sempre un ottimo candidato per esercizi di pareidolia: cucchiai volanti, un femore, un topo. Ma c’è qualcosa che tendiamo a vedere più di altro, qualcosa che ci assomiglia: le facce. Non a caso, come ha ricordato Ray Norris della Western Sydney University in un articolo relativo proprio al fenomeno della pareidolia, in occasione della porta scoperta su Marte, citando a sua volta una ricerca australiana in merito.
La questione è questa, spiegava Colin Palmer della Science’s School of Psychology presso la University of New South Wales: la pareidolia avrebbe una funzione evolutiva, che avremmo ereditato dalle scimmie: “C’è un vantaggio evolutivo nell’essere particolarmente bravi o efficienti nel riconoscere facce, è importante per noi da un punto di vista sociale. È importante anche per individuare i predatori. Così se ci siamo evoluti per essere molto bravi a identificare delle facce, questo può portare a vedere dei falsi positivi, ovvero a vedere facce lì dove non ce ne sono. In altre parole è meglio avere un sistema eccessivamente sensibile alla rivelazione di volti, che uno che non lo è abbastanza”. Quindi vediamo facce e occhi su Marte o chissà dove? Poco male, meglio che non vederle.
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www.wired.it
2022-06-19 05:00:00