A BORDO DELLA OCEAN VIKING – Nella biblioteca di acronimi che scandisce la vita sulle navi, M-O-B è uno di quelli che fa più paura. Sta per “man overboard”, uomo in mare. Con l’acqua gelida del Mediterraneo d’inverno, significa morte certa e in termini di tempo, ne basta molto poco. Per il freddo, per l’impatto, per annegamento. Se il cuore smette di battere ci sono pochi minuti per riportare una persona indietro: dopo cinque si rischiano importanti danni al cervello, se si arriva a dieci non c’è più nulla da fare.
Cadere in acqua per chi attraversa i flutti su carrette del mare, tinozze e canotti indegni del rango di barche, è facilissimo. “Le imbarcazioni di migranti che partono dalla Libia sono insicure, di pessima qualità, con un carico di persone eccessivo, non adatte alla navigazione – ha spiegato il portavoce dell’Oim Flavio Di Giacomo – Possono affondare in pochi minuti in qualsiasi momento e quindi sono da considerarsi tutte a rischio di naufragio”.
Chi è sulla Ocean Viking lo sa. E per questo impara a correre. Per infilarsi in fretta nelle tute ed essere pronto per saltare sui rhib appena l’allarme arriva. Per raggiungere in fretta l’imbarcazione in difficoltà. Per recuperare nel più breve tempo possibile un corpo dall’acqua. E non è certo facile. Pesa, scivola e sotto c’è un gommone che fa il rodeo sulle onde.
“E pensa che lui non si muove”, dice Justine dopo aver tirato su per l’ennesima volta Oscar, il manichino che si usa per le esercitazioni. La stazza è quella di un uomo adulto, il peso anche. Porta una vecchia tuta arancione di Sos Mediterranée, il suo “collega” ne ha una blu. Sono stati lanciati in acqua decine e decine di volte per collaudare le manovre degli equipaggi che devono essere pronti a recuperarli e soccorrerli. “Ma quando ti trovi davvero di fronte a qualcuno che sta affogando e devi tirare su – spiega – è tutto diverso”.

Perché una persona che cade in acqua si muove parossisticamente, cerca a tutti i costi di salvarsi, pur di riuscirci si aggrappa a qualsiasi cosa, incluso il soccorritore che gli tende la mano. E la disperazione è tale che rischia di trascinare in acqua anche lui. “Era la mia principale paura quando sono salita per la prima volta su una lancia di soccorso”, spiega Lisa, soccorritrice siciliana.
“In quei momenti – sottolinea Hector, anche lui delle squadre che salgono al volo sui rhib – non pensi niente, solo a tirare fuori le persone dall’acqua. Funzioni come una macchina”.
Difficilmente chi è in mare riesce ad aiutarti. Perché è il panico a dettare legge. O perché forze non ne ha più. Le traversate in mare distruggono, a bordo c’è gente che probabilmente non beve e non mangia da giorni, lobotomizzata dal rollio continuo delle onde, catatonica magari per le esalazioni da gasolio. E pesano i corpi, i vestiti, le onde ti strappano via le persone, le nascondono. E devi fare in fretta. Come sempre, come tutto.

Anche avvicinarsi a una barca in difficoltà che si è ribaltata non è certo facile. Ogni manovra può sollevare un’onda che allontana qualcuno. Ogni movimento del rhib può essere una condanna per chi sta in acqua. Il riverbero della luce sulle onde, magari rottami o quei copertoni stracciati che chi tenta la traversata generalmente usa come rudimentale – e sostanzialmente inutile – giubbotto di salvataggio, qualsiasi cosa può far perdere di vista una persona in acqua. È una vita che puoi salvare, ma solo se le tue carte le giochi – e bene – in pochi minuti.
“Ricordo – racconta Yann, uno dei driver delle lance veloci – che una volta abbiamo ricevuto una richiesta di aiuto da un’altra nave ong. Avevano avvistato una grande barca di legno con decine e decine di persone già in acqua”. È lo scenario peggiore.
“Eravamo lontani, ma abbiamo deciso di cercare di raggiungerli lo stesso. La nave ci avrebbe messo troppo, quindi abbiamo lanciato subito i rhib. Ha voluto dire navigare per ore, in piena notte, nella totale oscurità”. L’unico riferimento? Il gps che segna la posizione e quello che i tuoi occhi ti dicono quando tutto è buio e non hai alcun tipo di riferimento.
Poi i naufragi impari a riconoscerli dall’odore. Di paura, sudore, gente pigiata. E lì tocca di nuovo combattere contro le onde, il vento, il tempo. In ballo, vite. Letteralmente nelle tue mani e per un tempo molto limitato. Le squadre di soccorso in mare lo sanno, si allenano per questo, studiano i possibili scenari, testano all’infinito le manovre per rendere automatici i movimenti, collaudati ruoli e posizioni a bordo. Quando si arriva nella zona del Mediterraneo il tempo dei test è finito.
Non resta che stare con le orecchie tese e i sensi all’erta, quando la richiesta d’aiuto arriva scendere in acqua, lasciare qualsiasi pensiero o problema personale a bordo e concentrarsi. Sperando sempre che la radio non gracchi M-O-B.
[email protected] (Redazione Repubblica.it) , 2022-12-23 12:35:31 ,www.repubblica.it