Modi di dire e “sentenze” della filosofia popolare di Napoli…

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Author: Carmine Cimmino
Data : 2022-11-27 06:43:28
Dominio: www.ilmediano.com
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“A frìere siente ‘addore” / “’a sciorta ‘e Maria Vrenna / “fernì’ a vrenna” / alici ‘e matenata

 

Disse una volta Vittorio Paliotti, che faceva parte della giuria del Premio di poesia dialettale “Salvatore Di Giacomo”, organizzato dal Comune di Ottaviano molti anni fa, che l’emarginazione culturale della lingua napoletana, voluta da settori potenti del mondo intellettuale “italiano”, era l’attacco più duro alla storia di Napoli e al ruolo della città. E nel 1999 Francesco D’Ascoli pubblicò “La Filosofia Popolare Napoletana”, un libro veramente ricercato. L’immagine di corredo è quella di un quadro di V. Irolli, “Mercato napoletano”.

 

La lingua italiana dice “Chi la fa l’aspetti” o “pan per focaccia” e Napoli rende l’idea con la “sentenza” “A frìere siente ‘addore”.  Per spiegare il motto Francesco D’Ascoli racconta, nel suo libro, una storia. Avvicinandosi la Pasqua, un sacerdote va a benedire la dimora di un pescivendolo che gli offre un cestino di pesci vari coperti di alghe. Il sacerdote, che avrebbe preferito un’offerta in danaro – da distribuire ai poveri, ovviamente – decide di punire il pescatore e sulla coperta del letto sparge non acqua lustrale, ma olio santo, e avverte, ironico: a gghiuorno se vedeno ‘e macchie, tra qualche giorno compariranno le macchie. Il pescatore, che ben conosceva il prete e aveva previsto tutto, risponde: a frìere siente ‘addore, quando friggerai il pesce, capirai dall’odore che non è pesce fresco, che è pesce pescato molto tempo fa. Può capitare che un malizioso venga punito da uno più malizioso di lui. Questa “sentenza” napoletana la ripeteva frequentemente un politico ottajanese di molti decenni fa. In questi giorni si svolgono cortei e manifestazioni contro la violenza di cui sono vittime le donne, e perciò mi piace parlare del motto “ ‘A sciorta ‘e Maria Vrenna”, la sorte – ma il napoletano “sciorta” significa molto di più – di Maria di Brienne.  Maria d’Enghien, nata nel 1376 – il titolo di contessa di Brienne lo ereditò da una zia – sposò, in prime nozze, Raimondo Orsini del Balzo, e nel 1406, rimasta vedova, accettò la proposta di matrimonio di Ladislao I d’Angiò, re di Napoli: “se muoio, almeno muoio regina”. Fu un matrimonio infelice, perché al marito piacevano le donne, ed era difficile tenere il conto delle amanti. Nel 1414 Ladislao morì, forse di malattia, forse avvelenato da una pomata spalmata ad arte sulle parti intime di un’amante. Divenne regina la sorella del re defunto, Giovanna II, che tolse alla cognata proprietà, danaro e gioielli e la fece chiudere in carcere. La liberarono solo quando videro che Maria era gravemente malata: morì nel 1446, povera e dimenticata. Una “sciorta” veramente brutta. Dunque, il cognome di Maria, “Vrenna”, viene da “ Brienne” e non ha nulla a che vedere con la “vrenna”, la crusca. Ma l’ironia del caso ha voluto che questa “vrenna” entrasse in un motto, “fernì’ a vrenna”, che bene si adatta alla storia di Maria. Infatti, “fernì’ a vrenna”, “finire con la crusca”, “concludersi con la crusca”,  i Napoletani lo dicono di quelle giornate che finiscono male. E’ il punto di vista dei cavalli, che, tornati nella stalla dopo ore e ore di pesante fatica, si vedono servire dal cocchiere, o povero o avaro, non il fieno, ma la crusca indigesta e dannosa per il ventre. E veniamo alle alici. In  ogni sua misura il tempo è nemico feroce della bellezza: non solo il tempo degli anni, ma anche quello delle ore. La freschezza di certi volti femminili, in cui l’opera della natura ha ricevuto il sostegno morbido e invisibile delle creme, è viva e piena nel primo quarto della giornata; poi, sciogliendosi gli unguenti a poco a poco, a poco a poco lo splendore di quei volti si vela, la stanchezza lo appanna, lo offusca, lo spegne. Queste donne sono come alici ‘e matenata: le alici appena pescate, che di primo mattino sfavillano, nel luccichio ancora intenso dell’acqua di mare, sui banchi delle pescherie. Poi l’acqua si prosciuga, le alici si strapazzano, i colori si abbassano in quel grigio che prima ne esaltava l’intensità, e il grigio da azzurro diventa neutro e smorto, e nulla lo può ravvivare: né le generose spruzzate d’acqua marina che la mano sapiente del pescivendolo distribuisce senza sosta, né i vermigli riflessi delle triglie, dei gamberoni e degli scorfani che quella mano sapiente non a caso ammucchia sui fianchi e sui bordi delle spaselle di pesce azzurro. Più che azzurro, grigio. “ Alici ‘e matenata” oggi verrebbe considerato un epiteto ingiurioso per le donne, e non meriterebbe di essere citato e commentato.  Dovrebbe essere espulso dalla lingua napoletana, come molti altri motti e modi dire che Francesco D’ Ascoli elencò nel libro ” ‘A malafemmena”.

 



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