«Noi, sopravvissuti del Covid»: la ripartenza da incubo per i commercianti

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Ripartire. Certamente. Ma in quale direzione? Dopo quattordici mesi di pandemia, lockdown e sogni infranti di riaperture a tempo indeterminato lo smarrimento e la frustrazione dei piccoli imprenditori è totale. Il governo ha reso pubblica la road map delle riaperture, indicando chi, come e quando potrà ripartire. Ad esempio, i ristoranti con i tavolini all’esterno, hanno potuto riaccendere i fornelli lunedì 26 aprile e nello stesso giorno i teatri hanno avuto il permesso di rialzare il sipario. Fra due settimane si potrà tornare a fare un tuffo nelle piscine all’aperto, gli stabilimenti balneari saranno pronti ad accogliere i turisti e fra un mese – Covid-19 permettendo – bar e osterie potranno tornare ad accogliere la clientela anche all’interno. Un anno fa il fotografo Simone Donati ritraeva per l’Espresso l’immagine di una Firenze deserta, fatta di saracinesche abbassate e commercianti disperati. Oggi Donati è tornato a calcare le stesse strade, immortalando i sopravvissuti che hanno resistito, ritratti qui. Ci sarebbe da festeggiare, invece da Palermo a Torino l’umore è nero.

La copertina del 3 maggio dello scorso anno con le serrande abbassate dei negozi 

 


«Bisognerebbe introdurre il reato di procurato fallimento», parte con una provocazione Patrizia Di Dio, amministratore delegato dell’atelier di moda La Vie En Rose di Palermo, città che oscilla fra il rosso e l’arancione. «Qui in Sicilia non è cambiato molto dall’inizio della crisi: così come non esiste alcuna garanzia di solidità del sistema sanitario di fronte a un’altra ondata di Covid-19, allo stesso modo non esiste la minima certezza di sostegno all’emergenza economica, in cui siamo sprofondati». Di Dio parla sia come vicepresidente nazionale di Federmoda, sia come imprenditrice che dà lavoro a 14 dipendenti, metà in cassa integrazione. «Facciamo l’esempio della mia azienda. Riaprire il negozio non vuol dire accendere la luce e aprire la porta, ma significa avviare una serie di costosi investimenti, nel caso specifico significa acquistare la merce per l’imminente stagione estiva. Se ci dovesse essere un contrordine, cioè se il negozio dovesse chiudere per una recrudescenza del virus, non mi resterebbe che alzare bandiera bianca, perché non posso riproporre l’invenduto fra qualche mese, ma dovrei mandarlo in fumo insieme agli investimenti delle tre precedenti collezioni, che non sono state vendute. Abbiamo sulle spalle una mole gigantesca di costi fissi arretrati».

Sull’orlo del burrone ci sono migliaia di imprenditori: un passo falso e si finisce in fallimento. I dati sono quelli pubblicati dalla società di informazioni aziendali Cerved, secondo cui su oltre un milione di aziende analizzate, il 7,8 per cento è già fallito, una su tre è sana e il resto barcolla. In particolare ci sono 182mila realtà economiche rese vulnerabili dal coronavirus. Per aiutarle il governo sta per varare l’ennesimo scostamento di bilancio da 40 miliardi, risorse che saranno utilizzate per sostenere i lavoratori autonomi e le imprese più colpite dalla crisi, aumentando la disponibilità di credito e sostenendo la patrimonializzazione. Anche qui, ci sarebbe da brindare, invece c’è scetticismo: «Finora i ristori sono stati assegnati in base al fatturato e non si è tenuto conto dei costi fissi. Io che ho trenta dipendenti e centomila euro di costi fissi l’anno, ho percepito un sostegno economico dal governo pari a quello di un’agenzia che fa talent management di influencer, il cui unico costo è l’affitto del proprio studio. Paradossalmente ci sono imprese che, grazie a questa distribuzione degli aiuti, si sono arricchite e altre, specialmente quelle che hanno un’attività strutturata, sono state abbandonate a loro stesse. In queste assegnazioni è mancata attenzione e cura: se queste sono le premesse come possiamo pensare di riaprire in serenità?», dice Annamaria Masullo, alla guida del centro culturale Off Topic di Torino, che al proprio interno ha un bistrò, uno spazio co-working, una sala polifunzionale per corsi di formazione e un grande spazio dedicato alle attività teatrali e musicali.

Se i 40 miliardi stanziati saranno assegnati a pioggia, come è stato fatto finora, a fallire non saranno solo alcune aziende ma l’intero Paese, perché con quest’ultimo scostamento di bilancio il rapporto tra debito pubblico e Pil sale al 159,8 per cento, superando anche quello del primo dopo guerra. Quindi, solo con un massiccio rimbalzo dei consumi si potrà ridurre il peso dell’indebitamento nazionale. Ma la ripartenza potrebbe essere più lenta del previsto. Ad esempio, Off Topic avrebbe potuto ripartire il 26 aprile: «Ma abbiamo deciso di attendere la metà di maggio. Quando lo scorso 16 aprile il governo ci ha annunciato che avremmo riaperto di lì a dieci giorni, la reazione è stata di sconcerto. I ministri non hanno idea di cosa significa riattivare un’impresa: serve tempo per le forniture, stilare i menu, mettere a punto il palcoscenico del teatro. E anche quando tutto questo sarà pronto, riapriremo facendoci il segno della croce, perché molto dipenderà dall’avanzamento della campagna vaccinale e quindi dall’andamento della curva epidemica. Chi si prenderà cura di noi se qualcosa dovesse andare storto e toccherà richiudere?», si domanda Masullo, che aggiunge: «Ci sono stati 14 mesi per elaborare una programmazione articolata e condivisa delle riaperture, che invece sembrano essere state lasciate al caso».

C’è anche da considerare, come spiega Fabio Sdogati, professore di Economia Internazionale al Politecnico di Milano, che la propensione alla spesa dei consumatori è cambiata: «Le famiglie tendono a spendere meno non solo perché impaurite dal futuro, ma anche perché, dopo un anno e due mesi di pandemia, molti considerano il risparmio una necessità. La gigantesca massa di denaro, congelato nei conti correnti dei cittadini, non tornerà a fluire nel sistema economico se non ci saranno delle opportune scelte strategiche dei governi». E questo significa che il rimbalzo dell’economia potrebbe essere meno consistente di quanto sperato.

Se nella precedente crisi del 2008 era stata la Cina a salvare l’economia mondiale annunciando investimenti per 600miliardi di dollari, «stavolta saranno i paesi ad alto reddito procapite a dover trainare la ripresa», sostiene Sdogati. Non a caso Joe Biden ha recentemente annunciato un piano da ottomila miliardi di investimenti pubblici per far uscire gli Stati Uniti dalla crisi. Secondo le ultime stime del Fondo Monetario Internazionale, l’uscita dal tunnel dipenderà fortemente dal controllo della pandemia: «In modo inadeguato l’Europa ha iniziato a farlo, mentre i paesi del Sud Est asiatico, Africa e America Latina sono in condizioni disperate. La sospensione dei diritti intellettuali sui brevetti dei vaccini, che è stata richiesta da centinaia di personalità di spicco in tutto il mondo, trova non solo ragioni di solidarietà umana – non si possono lasciar morire le persone per strada, come sta succedendo in India -, ma anche una egoistica motivazione economica, perché finché i tre quarti della popolazione mondiale resteranno in balia del virus, si rischia di favorire la proliferazione di varianti resistenti ai vaccini. Questo impedirà di lasciarci alle spalle le restrizioni e quindi lo stato di emergenza sanitaria ed economica».

Per quanto riguarda l’Italia, il Fmi prevede che quest’anno la crescita sarà del 4,2 per cento, la più bassa (dopo il Giappone) fra i paesi ad alto reddito procapite: «Ci attende una ripresa debole e faticosa perché la struttura produttiva italiana è composta da piccole e medie imprese incapaci di reagire con dinamismo e innovazione, come invece sanno fare le poche medie e grandi aziende italiane», spiega Sdogati. La nota positiva è che «nel 2008 il sostegno del governo era stato minimo, mentre questa volta la mano pubblica sta aiutando il tessuto produttivo, per esempio fornendo alle aziende le garanzie bancarie per far fronte ai debiti. Sia chiaro, senza soccorso dello Stato le imprese non hanno alcuna possibilità di salvarsi». Ecco perché c’è grande attesa per i 40 miliardi del decreto Sostegni Bis, per i 30 miliardi del Fondo complementare al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, per i 248 miliardi del Recovery Fund, di cui 25 in arrivo a fine estate.


Un mucchio di quattrini, che tuttavia non convincono Mariano Bella, responsabile dell’ufficio studi di Confcommercio: «Ci vorrebbe un miracolo per poter chiudere il 2021 con un miglioramento del Pil del 4,5 per cento, così come previsto dal ministero dell’Economia. Noi stimiamo un più 3,8 per cento, sia perché il 2021 è partito malissimo (nel solo mese di aprile i consumi si sono ridotti di 15 miliardi rispetto al periodo pre crisi), sia perché le riaperture sono frenate dal permanere delle restrizioni. Per capirci, ci sono trecentomila bar e ristoranti che guadagnano per lo più con i consumi serali e che sono fortemente danneggiati dal coprifuoco alle 22, e ci sono centomila ristoranti che non hanno tavoli all’esterno e per un altro mese resteranno chiusi». Il commercio sconta circa l’88 per cento di consumi sfumati nel 2020 per un totale di 129 miliardi di perdite che si concentrano in quattro settori: turismo; abbigliamento e calzature; bar e ristoranti; ricreazione, cultura, spettacoli, convivialità e fitness. «Per riuscire a sfruttare i soldi che verranno dallo Stato e dall’Europa serve un’amministrazione pubblica capace di iniettare velocemente quel denaro nell’economia. Dubito che la tradizionale e mastodontica burocrazia all’italiana riuscirà a farcela».

Chi invece sta scaldando i motori ed è pronto a replicare i buoni risultati dello scorso anno sono gli imprenditori del turismo. «Qui in Liguria è tutto un fermento. C’è la speranza di anticipare a metà maggio l’inizio della stagione estiva, che lo scorso anno si era concentrata solo sui mesi di luglio e agosto. Siamo fiduciosi, anche se, a causa del distanziamento, avremo il 25 per cento in meno di clienti (e quindi di fatturato) e sappiamo anche che peserà moltissimo l’assenza di vacanzieri stranieri», spiega Mauro Rebonato dello stabilimento balneare Bagni Garibaldi di Finale Ligure, pronto a richiamare in servizio tutto lo staff in cassa integrazione. Anche secondo Massimo Zanon, albergatore veneto, c’è grande attesa, «ma pesa l’incertezza sulle presenze straniere, mentre le chiusure anticipate la sera potrebbero scoraggiare i vacanzieri». Sul turismo incide negativamente l’assenza di comunicazioni certe, specialmente per attrarre gli stranieri. Il governo si sta muovendo a passi incerti sulla predisposizione del green pass, il passaporto digitale europeo che garantirà la libertà di movimento a chi è stato vaccinato, ha sviluppato anticorpi o ha effettuato un tampone negativo: «Mentre alcuni paesi europei si rivendono posizioni “covid free” per accogliere turisti, in Italia regna l’incertezza», dice Magda Antonioli, vicepresidente dell’European Travel Commission e docente della Bocconi. Eppure le vacanze rappresentano il 13,2 per cento del Pil nostrano, per un giro d’affari da 232,2 miliardi. «Torneremo ai volumi del 2019 non prima della fine del 2023. Mentre per quest’anno si prevede una riduzione dei turisti nazionali e internazionali del 34 per cento (era stata del 55 per cento nel 2020)», dice Antonioli. Questo dato si traduce in 47 miliardi di euro in meno di spesa turistica, senza considerare l’incertezza sulla campagna vaccinale e i dubbi sul passaporto Covid-19.

«Esistono anche dati incoraggianti. L’Enit, Agenzia Nazionale Turismo, ha verificato che la destinazione preferita dagli europei è l’Italia. Serve però maggiore chiarezza nelle regole di ingresso e spostamento. Un altro segnale incoraggiante è l’interesse dei private equity e dei grandi investitori per il business turistico italiano, ma anche qui bisogna evitare di svendere il patrimonio italiano a player non affidabili».

Fra i settori più colpiti c’è l’industria dei servizi alla persona, parrucchieri ed estetisti in primis, un settore da 150mila imprese, 300mila addetti e sei miliardi di fatturato. «Abbiamo raccolto 62mila firme per chiedere al ministro per gli Affari Regionali Mariastella Gelmini di lasciarci lavorare anche in zona rossa, allegando uno studio che dimostra come non si verificano casi di contagio nei nostri negozi», spiega Tiziana Chiorboli, parrucchiera di Rovigo e presidente nazionale di Confartigianato acconciatori, che continua: «Subiamo l’abusivismo, che è anche molto rischioso, perché chi lavora nelle abitazioni private per un taglio di capelli o una manicure non utilizza sicuramente i livelli di sicurezza e di igiene che possiamo garantire nei nostri locali».


Dare il via alle riaperture aumentando i controlli è anche l’invito che due ristoratori d’élite lanciano al Governo. Il primo è Alessandro Pipero, del Pipero di Corso Vittorio in centro Roma, con grandi spazi interni ma nessun dehors: «Resterò chiuso. Cinquanta mila euro di ristori sono serviti a pagare meno della metà dell’affitto dei locali di questi 13 mesi di lockdown a singhiozzo. Sono sconsolato e amareggiato perché dalle consegne dei delivery è chiaro che le persone si riuniscono nelle case private per pasteggiare e trascorrere le serate, rischiando quindi di infettarsi. Nei ristoranti, invece, c’è l’obbligo del distanziamento e delle misure di igiene e sicurezza, basterebbe aumentare i controlli, lasciandoci lavorare».

L’altro ristoratore è Enrico Pierri del SanLorenzo, in zona Campo dei Fiori a Roma: «Abbiamo riaperto, ma le modalità mi lasciano perplesso. Lo scorso anno si era puntato tutto sulla distanza fra tavoli, ora invece si può aprire solo all’aperto. Noi siamo stati fortunati, perché avevamo chiesto al comune di poter mettere dei tavolini in piazza. Ma non siamo fuori pericolo. Per quanto resteremo aperti? Molto dipenderà dal senso civico di noi operatori e dei clienti. I primi devono far rispettare le regole, i secondi devono essere educati. Ma perché la riapertura possa essere a lungo termine servono più controlli, altrimenti rischiamo di dover abbassare la saracinesca un’altra volta». Abbassare un’altra volta la saracinesca. Eccolo il timore degli imprenditori superstiti, consapevoli che un nuovo lockdown li farebbe precipitare nel burrone del fallimento.



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