Il caso è naturalmente disgustoso. E ha ragione Mahnoor Euceph, l’influencer statunitense di origini pakistane che con il suo video su TikTok ha trasformato un caso di razzismo quotidiano in un triste fenomeno planetario: almeno dai giovani ci si aspetterebbe di meglio. Ma l’età, molti lo dimenticano, non è un valore: è un dato di fatto. Delle tre ragazze che hanno offeso e provocato il compagno e la madre, di origini cinesi, sul treno da Como a Milano a metà aprile si è detto, condannato e scritto tutto. E ci si è tutti vergognati a sufficienza come italiani.
C’è tuttavia un’altra questione che si è innestata sopra questa, come capita sempre più spesso ai quattro angoli del mondo (di recente negli Stati Uniti). E non la esclude di certo, anzi merita di essere discussa. Si chiama doxing. È un’etichetta con cui ci si riferisce alla pratica di cercare e diffondere online informazioni più o meno pubbliche ma anche squisitamente private di una persona (generalità, residenza, posto di lavoro, condizioni personali, luogo di studi o luoghi frequentati, profili social su varie piattaforme). Di solito lo si fa con intento malevolo in partenza, per esempio per screditare il lavoro di un giornalista o di un professionista, ma in casi come quelli che hanno coinvolto Mahnoor Euceph il doxing finisce per trasformarsi in una specie di vendetta consumata via social con l’obiettivo di distruggere la vita di chi – senz’altro – ha sbagliato. Ma scagliandosi in questo modo si commette a propria volta un errore e a volte perfino qualche reato.
Chi, infatti, risponde al teatrino razzistello delle tre ragazze del treno lombardo con l’indiscriminata raccolta di dati a fini diffamatori, ingiuriosi o persecutori non sembra sentirsi responsabile di aver compiuto un abuso. Basta scorrere i commenti sotto al video di TikTok di Euceph. Eppure lo è, e si tratta di un abuso altrettanto grave per quanto ovviamente di natura diversa. La famiglia, il lavoro, i luoghi e le persone che frequentiamo non c’entrano con gli errori che tutti compiamo nel corso della nostra vita, anche i più odiosi, e che dovrebbero rimanere personali, con conseguenze commisurate alla gravità del fatto e stabilite nei posti e dagli organismi appropriati. Al netto, ovviamente, della considerazione che ciascuno di noi potrà farsi di ogni situazione.
Perfino le tre università frequentate dalle ragazze coinvolte si sono sentite in obbligo di intervenire per difendere i propri valori e la propria reputazione. Diciamola tutta: non ce n’era bisogno. Un ateneo non può certo rispondere delle sciocchezze che ciascuno dei suoi iscritti compie quando è fuori dai suoi locali o non agisce per suo conto. E per certi versi neanche in quei casi. Non si trattava inoltre, a quanto risulta, di docenti o dipendenti, situazione che avrebbe chiaramente aperto a valutazioni di tipo diverso. L’unico aspetto costruttivo si trova in una slide pubblicata dalla Iulm: “A chi ha chiesto la sua espulsione dall’ateneo, Iulm risponde che, allo stesso modo in cui la nostra università condanna ogni forma di razzismo, non si può tantomeno tollerare un tale accanimento che nasconde in sé il ferme altrettanto grave del totalitarismo”.
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di Simone Cosimi www.wired.it 2023-04-27 10:12:03 ,