Se si dovesse riassumere tutto quello che c’è da dire su Piece By Piece in una frase, questa sarebbe: “Viene censurata anche la parola merda”. Parliamo di un documentario sulla vita del produttore e compositore (e non solo) Pharrell Williams e sull’industria musicale degli anni ’90 e 2000, in cui compaiono e parlano tantissimi nomi cruciali dell’epoca (da Gwen Stefani a Missy Elliott, passando per Snoop Dogg e Busta Rhymes) tutto realizzato in forma animata: le interviste e le voci degli ospiti sono abbinate a personaggi Lego animati, così come i racconti che fanno, anch’essi ricostruiti e animati. La scelta ha un prezzo: la totale infantilizzazione del contenuto, della storia e delle tematiche. La cosa tuttavia non deve essere dispiaciuta a nessuno, perché la vita di Pharrell Williams raccontata da Pharrell Williams in un film prodotto da Pharrell Williams si rivela un’agiografia sfacciata, a cui si fatica a credere.
Non ci sono dubbi che l’idea di usare i Lego sia forte. Posiziona il film a metà tra il documentario (perché ci sono le vere persone coinvolte che parlano con la loro voce) e il film biografico (perché le situazioni e i fatti sono ricostruiti con ampio margine di falsificazione). Nei suoi momenti migliori, Piece By Piece usa la sua natura finzionale per rendere non tanto ciò che è avvenuto al suo protagonista, ma ciò che sentiva, come percepiva la sua vita, che cosa pensava. È il caso della sua formazione musicale, dell’incontro con Chad, o ancora della maniera in cui intende la creatività, come l’assemblaggio di cose che già esistono. Il processo creativo musicale infatti viene sempre mostrato come l’assemblaggio di pezzi di Lego. Comporre una traccia equivale a fare una piccola costruzione. È un’idea musicale ma anche promozionale, perché ripetuta così tante volte finisce per creare un’associazione tra il genio e i Lego.
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di Gabriele Niola www.wired.it 2024-12-05 13:30:00 ,