Il male non è nelle cose, non è nei luoghi. È insopportabile l’idea che un crimine, un’efferatezza siano determinati dalla geografia, da un genius loci maligno. Quando il vescovo – nell’omelia che gli altoparlanti fanno arrivare alla folla silenziosa riunita per i funerali di Michelle Causo – parla di un «mondo guasto», di «spacciatori di morte», indica un degrado «che non è in un quartiere o in una periferia». Poi si chiede se questa società non abbia perso la bussola, ma la verità è che c’è sempre – in ogni società, in ogni epoca – chi la perde: e la cabala dell’orrore che di recente ha portato spesso Primavalle nelle pagine di cronaca nera (lo stupro di Capodanno in villa, la storia dell’uomo con disabilità che vola da una finestra durante una perquisizione, l’assassinio di Michelle Causo) dice di argini morali che cedono lì, nella periferia nord ovest di Roma, come altrove.
È Primavalle il problema? Che cos’è Primavalle? Un ragazzino con gli occhi chiari e il viso segnato dall’acne non riesce a smettere di piangere. Piange, fermo immobile sotto il sole implacabile del mezzogiorno di luglio, e a voce bassa dice: «Un posto in cui ci conosciamo tutti». Lo vedi dalle pacche sulle spalle, cameratesche, dagli abbracci stretti che si scambiano i maschi adulti e i maschi giovani, soprattutto loro: una specie di codice, un segno di riconoscimento. Come i tatuaggi che marcano colli, braccia, polpacci.
Il colpo d’occhio sullo spiazzo arroventato fuori dalla parrocchia di Santa Maria della Presentazione di via di Torrevecchia restituisce una prevalenza di adolescenti: si tengono per mano, scoppiano in lacrime, con gli occhi rossi e il respiro spezzato fissano la bara bianca che entra nel carro funebre. E sosta lì, per diversi – interminabili – minuti: il primo applauso lo chiama il vescovo, come manifestazione d’affetto verso i familiari; gli altri partono spontanei, a ripetizione, fino al momento in cui il lancio di palloncini bianchi e rosa sembra stringere mezzo quartiere nello stesso singhiozzo, nella stessa disperazione senza parole. Così anche chi dovesse trovare incongruo questo gesto – battere le mani a un funerale, al funerale di una diciassettenne massacrata da un coetaneo – deve riconoscere che è forse l’unico possibile. Manifesta, per paradosso, un senso di impotenza.
È quello leggibile negli occhi di un’anziana che cerca uno spicchio d’ombra e si asciuga la fronte e le orbite. È quello leggibile nello sguardo vitreo di una ragazza che domanda a un’amica: «La conoscevi?». «No», risponde lei, «conosco alcuni amici suoi». E piange. È leggibile – concretamente – nelle parole scritte su un cartellone fucsia pieno di fotografie. Una donna lo tiene sollevato, spiega che ritraggono sua figlia con Michelle. La lettera di Asia dice: «Cara Misci, te li ricordi questi giorni passati insieme? Io ti voglio ricordare sempre così: sorridente, spensierata, sempre con la risposta pronta. E soprattutto voglio far ricordare a tutti che eri una ragazza con la testa sulle spalle e che non si faceva abbattere da niente e da nessuno».
«Giustizia per Michelle» è l’ultima frase, scritta in grande. E la ripetono gli amici ai microfoni dei cronisti televisivi, giustizia, giustizia; la ripetono gli adulti – i maschi – con il tono di chi poco si fida di quella ufficiale. Mentre le madri e le nonne, se interpellate, parlano di educazione, di esempio: una dice che i figli bisogna tenerseli a abitazione, un’altra risponde che non ha senso, ma come li proteggiamo? A un passo dal feretro fermo nell’auto su via di Torrevecchia angolo via Campomorone, una ragazza, concitata, racconta a una signora che lei, quando esce la sera, chiede ai genitori di andare a prenderla alla fermata della metro Battistini. «L’autobus non lo prendo, aspettarlo di notte mi fa paura».
Una donna si fa il segno della croce e dice: «Aveva uno sguardo triste, quella bambina». Dice così, dice bambina. È quasi un infanticidio, è di sicuro un femminicidio, ma questa parola non la usa nessuno, come se non lo fosse, o lo fosse un po’ meno di altri. Come se il punto fosse un altro. La legale della madre, assediata dai microfoni, si affanna a smentire le «ricostruzioni fantasiose» circolate in questi giorni. Un altro avvocato ammette che i dati certi sull’omicidio sono pochi e confusi. La droga, i ricatti? «Non abbiamo ancora elementi sufficienti».
Ma sono sufficienti i dati dell’autopsia per restare sgomenti – le venti coltellate con una lama a serramanico, il volto di Michelle sfregiato. «Come si fa? Come si fa?» scuote la testa, desolato, un uomo che poi si lascia quasi cadere su un gradone. Brillano le unghie lunghe giallo fosforescente di una ragazza che si asciuga le lacrime e al telefono dice: «Me vieni a prende? È finito adesso».
È finito adesso, sì. Le corone di fiori sono state portate via: erano tante – una anche dai compagni di classe delle elementari. Gli striscioni sono stati arrotolati. «Le anime leggere volano in cielo per illuminarci». Un amico di Michelle e del fidanzato bacia la t-shirt con la foto di lei e la frase «Il tuo sorriso brilla in cielo». I palloncini sono già spariti alla vista, lassù, sopra Primavalle, ma solo un bambino alza il naso per cercarli.
[email protected] (Redazione Repubblica.it) , 2023-07-05 23:01:00 ,www.repubblica.it