Quello che forse non sapete dei fiori d’aprile

0


NASHVILLE — Il fiore primaverile che amo di più sboccia sui rami nudi e ancora senza foglie del “serviceberry” (Amelanchier), un piccolo albero con varietà autoctone in ogni Stato americano fuorché le Hawaii. Un tempo, i semplici boccioli dei suoi fiori a cinque petali preannunciavano l’arrivo della primavera.

Secondo una tradizione degli Appalachi, l’albero di Amelanchier prese il nome popolare di serviceberry perché fioriva proprio quando la neve si scioglieva sulle strade tortuose di montagna e i passi si aprivano. I suoi fiori stavano a indicare che, di lì a poco, sarebbero arrivati i preti itineranti per celebrare i matrimoni, i funerali e tutti gli altri servizi religiosi che l’inverno aveva fatto posticipare così a lungo.

Come accade per quasi tutte le piante selvatiche più amate, anche queste, annunciatrici della primavera, hanno molti nomi popolari. Quella che qui in Tennessee chiamiamo serviceberry, in altre zone è nota come shadbush, sarvis, juneberry, saskatoon, prugno o pero selvatico e così via. A prescindere da come sia chiamata a livello locale, i fiori di questa pianta sono stati sempre uno spettacolo gradito per le generazioni che ci hanno preceduto: finalmente l’inverno giungeva al termine e una nuova vita poteva avere inizio.

Oggi, però, i serviceberry non sono più apprezzati. Estromessi per così tante generazioni dai nostri paesaggi ben curati, oggi questi alberelli caratteristici del nostro Paese non sono quasi più riconosciuti dalla maggior parte degli americani. Per noi, primavera significa fioritura di piante che si sono evolute per ecosistemi europei e asiatici, non per i giardini americani.

Ciliegi Yoshino a Washington DC, Usa (foto: Olivier Douliery/Afp via Getty Images)  


I vivaci narcisi che amate fin da quando eravate piccoli? Sono arrivati dall’Europa settentrionale. L’onnipresente esplosione dorata delle forsizie? È dovuta a varietà originarie sia dell’Asia orientale sia dell’Europa orientale. La magnolia stellata, la Chaenomeles speciosa e il ciliegio Yoshino, il pero Bradford e molte varietà di caprifoglio? Arrivano tutti dall’Asia.

Fior di pesco (Chaenomeles speciosa) nei Royal Botanic Gardens, Kew, Londra (foto: Peter Macdiarmid/Getty Images) 

“Beh, e con questo?” potreste chiedervi. Siamo una nazione di immigrati e il nostro più grande punto di forza è il multiculturalismo. Perché non dovremmo godere dei fiori più belli che possiamo far crescere qui, a prescindere dalle loro origini? Che problema può mai esserci, se ad annunciare l’arrivo della primavera è un cespuglio di forsizia invece dei rami in boccio dei serviceberry?  

In verità, il danno c’è. Le piante non sono persone. Deambulanti e onnivori, gli esseri umani sono una specie migratoria. Altrettanto non può dirsi della stragrande maggioranza delle piante, che si sono evolute per prosperare nell’ambito di un unico tessuto vitale che forma un ecosistema.

Forsizia (Forsythia Vahl) nel Central Park, New York, Usa (foto: Stan Honda/Afp via Getty Images) 


I fiori nativi nutrono insetti nativi che, a loro volta, nutrono uccelli, orsi, pipistrelli, lucertole e rane del posto. Le piante native producono semi che nutrono i roditori nativi, che a loro volta sfamano volpi, falchi, gufi e serpenti nativi. Gli alberi nativi offrono rami per nidificare a uccelli e scoiattoli nativi.

Le creature selvatiche hanno bisogno di piante selvatiche per sopravvivere, ma se si percorre una strada qualsiasi di un quartiere di periferia qualsiasi – o di qualche curatissima strada del centro – ciò che si vedrà sono splendide distese di terreni in boccio, dove i fiori non nutrono nessuno.

Peggio ancora: spesso queste piante vanno mano nella mano, con i guanti da giardinaggio, con tutta una serie di operazioni di manutenzione che fanno uso di veleni. Tra erbicidi messi a punto per sterminare le erbacce (inclusi i fiori selvatici che sbocciano prematuramente) e insetticidi studiati per sterminare qualsiasi cosa strisci (compresi gli impollinatori naturali), il paesaggio tipico suburbano è di fatto qualcosa di peggio di un terreno incolto. È una trappola mortale.

Ciò non vale soltanto per le piante e gli animali autoctoni. Molte di queste sostanze chimiche sono interferenti endocrini che, secondo alcuni ricercatori, potrebbero avere un effetto devastante sulla salute umana, tanto da essere in alcuni casi messi in relazione con deficit dell’attenzione, Parkinson, Alzheimer, infertilità, tumori e molte altre patologie.

Come se non bastasse, alcune delle piante esotiche che abbiamo introdotto nei nostri ecosistemi un tempo perfetti in verità fanno molto più che crescere rigogliosi nei nostri paesaggi. Alcune si sono adattate così bene alle loro nuove sedi innaturali da estromettere tutte le piante che vi crescevano prima. Nel sud dell’America, dal clima adatto alle piante di origini asiatiche, c’è un metodo infallibile per sapere se ciò che cresce è autoctono o esotico: è sufficiente passare accanto a una città o a un parco cittadino boschivo nei primissimi giorni di primavera. Qualsiasi albero o cespuglio che stia mettendo verdi e tenere foglie o boccioli di sicuro non è del luogo. A marzo, i boschi erano pieni di alberi di pero di Bradford in fiore, specie molto invasiva, mentre i boccioli dei serviceberry erano ancora ben chiusi.

Affrontare e risolvere questo problema è molto complicato perché parecchi di questi alberi e cespugli da fiore sono stati piantati nei giardini degli americani così a lungo che le loro fioriture alimentano la nostalgia. E non si tratta soltanto dei nostri giardini domestici: i delicati fiori dei ciliegi di Yoshino ormai sono parte integrante del lungo viale erboso del National Mall di Washington, proprio come in Giappone.

Spirea della corona nuziale, Spiraea prunifolia (foto: Dalgial, CC BY-SA 3.0 via Wikimedia Commons) 


Mia madre, oggi scomparsa, piantò con le proprie mani la forsizia che di questi tempi è allegramente fiorita nel mio giardino. Piantò anche il ciliegio di Kwanzan e i meli selvatici a cui manca poco per germogliare. Alcuni anni fa, ho sradicato la Spiraea prunifolia che aveva piantato per me, ma soltanto perché non riceveva abbastanza luce sotto il cipresso di Leyland, anch’esso piantato da lei. Nessuna di queste piante è originaria del Middle Tennessee, ma finora non sono riuscita a privarmene del tutto. La maggior parte di esse è nata da talee arrivate dalla casa della mia infanzia, e almeno una proviene dalla casa natale di mia madre.

Per adesso, sono giunta a un compromesso: voglio riempire il nostro giardino di piante che svolgano il lavoro per le quali la natura le ha create, alimentare le creature selvatiche nostre vicine di casa. Nel mio giardino adesso ci sono giovani papaie e gelsi rossi, cedri rossi orientali e agrifogli americani, Cercis canadensis e cornioli. E, ovviamente, serviceberry. Non è troppo tardi: potreste fare così anche voi nei vostri giardini e nelle vostre città. Il dipartimento locale di contea o un vivaio di piante native potranno aiutarvi a scegliere gli alberi e i cespugli che si adattano meglio al suolo e alla luce del posto dove vivete. Ancora più facile è inserire il vostro codice postale nei database delle piante native di Audubon o della National Wildlife Federation.

“Che cosa accadrebbe se ogni proprietario di casa in America si impegnasse a convertire metà del suo giardino alle comunità che fanno crescere piante native?” si chiede Douglas N. Tallamy nel suo libro “Nature’s Best Hope: A New Approach to Conservation That Starts in Your Yard”. Ebbene, la sua risposta potrebbe stupirvi: “Nell’insieme, perfino un successo parziale potrebbe riportare l’ecosistema di otto milioni di ettari di quello che oggi è terreno ecologicamente infruttuoso a somigliare a quello primigenio che era in origine”.

Provate a immaginare: otto milioni di ettari di ecosistema che diventano più salutari per le altre creature, più sani per gli esseri umani, più in buona salute per il pianeta. Con uno sforzo minimo e poca spesa, potremmo ripristinare la primavera e farla tornare a essere quello che di più urgente deve essere: apportatrice di vita nuova nel mondo.

Margaret Renkl scrive articoli di opinione su flora, fauna, politica e cultura nel sud dell’America. Ha pubblicato “Late Migrations: A Natural History of Love and Loss” e sta per pubblicare “Graceland, At Last: And Other Essays From The New York Times”.

Traduzione di Anna Bissanti
© 2021, The New York Times



Source link

Leave A Reply