Recensione di El Páramo – Terrore invisibile

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di Lorenza Negri

El Páramo (in inglese distribuito sia con il titolo Wasteland – terra desolata – traduzione letterale dell’originale, o The Beast) è la cronaca di una suggestione, una parabola opportuna nell’era del covid di quando l’isolamento e la paranoia generino mostri. Tutto l’impianto orrorifico di questo film si basa sulla fotografia – l’affascinante lavoro del direttore della fotografia Isaac Vila, che giustappone la paletta fredda delle lande spoglie con i toni caldi della casetta man mano inghiottita dall’oscurità –, sulla scenografia da western leoniano, e sulle ottime interpretazioni di Imma Cuesta, di Roberto Álamo (Che Dio ci perdoni) e del piccolo Asier Flores. Gli horror spagnoli sono i prediletti, assieme a quelli nipponici, di chi scrive ma in Wasteland risuonano anche gli echi di The Wind, di Babadook e di Antlers. C’è un po’ di Guillermo del Toro, anche nella scelta di Casademunt di narrare, come fa Antlers, il romanzo di formazione di un ragazzino attraverso il confronto con l’Altro, un Altro mostruoso da distruggere per passare all’età adulta. 

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Per chi non ama gli horror suggestivi – i mostri, per quanto terrificanti, è meglio guardarli in faccia piuttosto che non – El Páramo è un incubo, ma il talento di Casademunt di basare un film praticamente sul nulla è apprezzabile anche dai detrattori di questo stile. Il finale, che rivela la verità attraverso impercettibili dettagli – il cadavere del cavallo, la borsa ritrovata, la forma del volto intagliata nel legno – che accusano la suggestione, la claustrofobia e la paura come fomentatrici della perdita del senno, suggella la convinzione che l’ora e mezza trascorsa in compagnia di El Páramo – Terrore invisibile è ben spesa.



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www.wired.it
2022-01-08 06:00:00

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