Renato Cortese e il caso Shalabayeva, quando la giustizia va in corto circuito

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Si apre il 17 gennaio a Perugia il processo d’appello ai poliziotti coinvolti nella vicenda di Alma Shalabayeva, la moglie del latitante kazako, Mukhtar Ablyazov, marchiato dalle corti di Londra come falsario e ladrone di un bottino miliardario, scappato all’estero proprio per non finire nelle prigioni inglesi e in fuga da oltre un decennio dal Kazakhstan, dove è stato condannato con l’accusa di aver rubato fondi statali per cifre colossali: circa sei miliardi di dollari.

La sentenza del tribunale di Perugia che ha condannato lo scorso gennaio sei poliziotti e una giudice di pace per la contestata espulsione della ricca signora Shalabayeva, per cui nel 2013 si scatenò una bufera politica, si basa su una ricostruzione dei fatti che, secondo le verifiche effettuate da L’Espresso, risulta molto lacunosa. E appare smentita da documenti e verdetti stranieri di cui i magistrati italiani sembrano abbiano ignorato l’esistenza. Al centro del caso ci sono però poliziotti che hanno sempre fatto bene il loro lavoro di dirigenti della Polizia di Stato, uomini come l’allora capo della Squadra mobile di Roma, Renato Cortese, che è dirigente generale della polizia e nella sua lunga carriera ha portato in carcere latitanti pericolosi di Cosa nostra come Bernardo Provenzano, Pietro Aglieri, Giovanni Brusca, Salvatore Grigoli e Vito Vitale, tanto per citarne alcuni, e poi boss della ‘ndrangheta, ma anche i “colletti bianchi”, magistrati collusi e uomini delle forze dell’ordine corrotti dalla mafia siciliana e da quella calabrese, fino a svelare e bloccare i clan di Roma e del litorale laziale.

Con Cortese è finito sul banco degli imputati anche un altro bravo poliziotto, Maurizio Improta, ex questore di Rimini e all’epoca dei fatti dirigente dell’Ufficio immigrazione a Roma. La condanna in primo grado è di cinque anni. Condannati anche altri cinque uomini che parteciparono alla perquisizione in abitazione della Shalabayeva, alle porte della capitale, per la ricerca del latitante Ablyazov, inseguito in ambito internazionale. L’uomo nel 2013 non era un rifugiato politico, mentre la donna, che si è presentata agli agenti mostrando un passaporto diplomatico della Repubblica Centraficana risultato poi falso, ha continuato per due giorni a sostenere di chiamarsi con un nome diverso dal suo, non solo non aveva mai formalizzato la richiesta di asilo politico, ma non era in possesso nemmeno di un permesso di soggiorno.

Occorre fare un passo indietro, e rivedere cosa è accaduto all’epoca dei fatti.

Il pomeriggio del 28 maggio 2013, intorno alle tre del pomeriggio, Cortese su indicazione del questore di Roma, Della Rocca, riceve alcuni diplomatici kazaki, i quali dichiaravano che a Roma, in una villa di Casal Palocco, si rifugiava un pericoloso latitante kazako: Ablyazov Mukhtar. L’uomo veniva indicato come contiguo ad ambienti terroristici “in grado di attuare un possibile attentato a Roma”. I diplomatici informavano Cortese che il ricercato poteva essere in compagnia di persone capaci di usare le armi. I diplomatici kazaki, come emerge dai documenti, non hanno manifestato alcun interesse per la posizione della moglie di Ablyazov, né avevano menzionato la possibilità che nella villa vi fosse anche sua figlia, la piccola Alua: la nota consegnata dai kazaki alla polizia si conclude con la previsione che: «nel caso di arresto, sarà in breve presentata al Ministero di Giustizia della Repubblica Italiana la richiesta di estrazione tramite canali diplomatici», ipotesi che poteva riguardare soltanto Ablyazov.

L’intervento della squadra mobile di Roma era quindi stato richiesto esclusivamente per catturare un latitante che veniva ritenuto “altamente pericoloso a livello internazionale”. E Cortese per gran parte della sua carriera in polizia è uno specialista nell’arresto dei latitanti. Ed ha sempre attuato la stessa procedura che la legge gli consente di fare.

Prima di iniziare le ricerche di Ablyazov, Cortese procede immediatamente a verificare, tramite i canali ufficiali interni alla Polizia di Stato, se quanto raccontato dai Kazaki in ordine allo stato di latitanza del ricercato corrispondesse al vero.

Il capo della Squadra mobile aggiorna il Questore, contatta Lamberto Giannini, allora capo della Digos e oggi capo della Polizia. Per le verifiche dei profili eversivi della vicenda, contatta Gennaro Capoluongo, direttore della Prima Divisione Affari Generali del Servizio per la Cooperazione internazionale della Polizia e riceve la nota ufficiale dell’Interpol da cui risultava che realmente Ablyazov era ricercato in campo internazionale.

Solo da questo momento, e quindi solo dopo aver ricevuto conferma dai canali del dipartimento della Polizia, Renato Cortese organizza insieme a Lamberto Giannini il gruppo di uomini, appartenenti ai rispettivi reparti, per la perquisizione del 28 maggio 2013 all’abitazione di Mukhtar Ablyazov. Cortese non partecipa alla perquisizione e non incontrerà mai Alma Shalabayeva.

Il giorno dopo il capo della Mobile viene informato che il controllo non ha portato all’arresto del latitante mentre gli viene riferito che la Digos ha accompagnato all’ufficio immigrazione due persone prive di regolari documenti per soggiornare in Italia e una di queste poteva essere la moglie del latitante. Tutti gli atti che riguardano la donna vengono compiuti dalla Digos: l’attività di Cortese è dunque terminata.

La Squadra Mobile non aveva alcuna competenza in materia di trattenimento ed espulsione e non avrebbe in alcun modo potuto verificare se vi fossero le condizioni per l’applicazione della disciplina prevista dal testo unico sull’immigrazione.

Salvo il fatto che la donna veniva denunciata per il suo falso documento attraverso il quale si faceva chiamare Alma Ayan. La donna non aveva fra l’altro alcun permesso di soggiorno in Italia.

Il punto vero della questione è che fino al temine di questa vicenda Alma Shalabayeva ha ribadito di essere Alma Ayan ed ha cercato in tutti i modi di tutelare l’identità africana. Leggendo l’informativa risulta chiaro che la Squadra Mobile ha riportato tutti i dati acquisiti in ordine alla figura di Alma Shalabayeva e, senza offrire deduzioni o facili conclusioni, ha evidenziato l’incongruenza con le affermazioni di chi insisteva ad essere Alma Ayan.

Appare incredibile che la sentenza del tribunale di Perugia ometta completamente di considerare il fatto che, a prescindere dagli elementi raccolti dalla Questura, nel momento in cui la donna continuava a dichiarare di essere un’altra persona senza un valido documento a supporto, chiedeva di ottenere le condizioni per l’applicazione delle norme del codice penale e del testo unico dell’immigrazione. E non si può pensare che sia stato Cortese ad indurre in errore i magistrati di Roma che hanno emesso il nulla osta all’espulsione di Shalabayeva, perché le sue note ai pm risultano corrette. Ma anche in questo caso i magistrati della procura, citati dalla difesa, non sono stati ammessi in aula dal tribunale.

La sentenza procede nelle sue deduzioni senza tener conto delle evidenze processuali che sono emerse durante il dibattimento, come il fatto che al contrario di quello che scrivono i giudici, non vi è stata alcuna “cieca obbedienza dello Stato italiano a quello kazako”. I fatti hanno dimostrato che si tratta di “un ragionamento fantasioso” elaborato nella sentenza. In mancanza di fatti e di prove, non si comprende a chi avrebbe obbedito Cortese e per quale ragione si sarebbe macchiato di un crimine così grave e infamante.

La realtà è che questo dirigente generale della polizia di Stato ha fatto solo e soltanto il suo dovere, nell’ambito della legge, che era quella utilizzata per la ricerca di un latitante, come per decine di volte in passato aveva fatto, e quindi la segnalazione ai magistrati di una donna che si presentava con documento diplomatico falso.

La perizia della polizia stabilisce che è stato «grossolanamente contraffatto», con quattro pagine sostituite, timbri mancanti e perfino «errori di ortografia in inglese e francese». Quindi la Procura di Roma concede il nulla osta all’espulsione. Ancora il 31 maggio, fino alla chiusura dell’udienza di convalida, Alma continua a sostenere di chiamarsi Ayan. Solo all’ultimo momento i suoi avvocati italiani dichiarano che è la moglie del dissidente Ablyazov, implorando di non mandarla in Kazakhstan. E mostrano per la prima volta un documento che il tribunale considera «decisivo»: un’attestazione di autenticità, firmata il giorno prima dall’ambasciatore centroafricano in Svizzera. Certifica che Alma ha «un passaporto di copertura», come il marito: un documento vero, ma con generalità false, rilasciato «per motivi di sicurezza». E a confermarlo, nel giugno 2013, è anche «una lettera del ministero della giustizia centroafricano».

La sentenza umbra non segnala che risulta spedita «da una cabina pubblica», come i documenti in possesso de L’Espresso dimostra. E non registra nemmeno che in quei mesi la Repubblica Centroafricana era dilaniata da una sanguinosa guerra civile. Con un dittatore deposto, nel marzo 2013, da un colpo di stato militare. Quindi il passaporto diplomatico, rilasciato da un regime in rotta, risulta confermato da un ministro golpista. Come ha fatto Ablyazov a ottenere quei passaporti da agente segreto in una delle nazioni più povere del mondo? A Perugia non se lo chiede nessuno: solo le sentenze inglesi offrono uno spunto, parlando di «commerci di uranio in Africa».

I giudici, riferendosi al Kazakhstan, non tengono conto nemmeno delle dichiarazioni fatte in aula dall’ex Capo della Polizia Alessandro Pansa il quale ha spiegato come nel maggio 2013, non esistevano su quel paese pericoli perché non vi erano segnalazioni negative provenienti da organismi come l’Unhcr, il Comitato Onu per i rifugiati.

Il Kazakistan è un Paese appartenente alla rete dei 191 Paesi Interpol. Come ha ricordato il questore Della Rocca «l’ambasciatore kazako era un personaggio di una certa importanza perché il paese è inserito nel circuito Interpol e quindi qualsiasi richiesta provenisse da questo Paese per noi valeva come qualsiasi altra nazione del mondo».

È dunque del tutto evidente che lo Stato italiano non ha subito alcuna pressione da parte dei kazaki e “non servava alcun particolare interesse nell’assecondare le sue richieste”, se non la manifestazione di una disponibilità istituzionale volta ad aiutare un altro Paese a catturare un suo latitante.

E Cortese non aveva interesse a prendere in ostaggio Alma Shalabayeva.

Come ha scritto il professore Giovanni Fiandaca sul Foglio, questo processo a Cortese e Improta è «un altro caso controverso, caratterizzato anch’esso da un (quasi) raddoppio della sanzione detentiva inflitta dal tribunale (cinque anni) rispetto a quella richiesta dall’accusa (due anni e qualche mese)». Secondo Fiandaca «al di là del rigore sanzionatorio, in questa vicenda appaiono a monte più che dubbi i presupposti, sia in fatto sia in diritto, che hanno indotto a emettere una condanna a titolo appunto di sequestro di persona (per di più, con aggiunta di ipotesi di falsità ideologica)». È dunque una storia giudiziaria da rivedere.

Ad oggi l’unica constatazione che si può fare, basandoci sui documenti e i riscontri, è che un gruppo di validi poliziotti a caccia di un latitante pericoloso, per aver svolto esattamente le procedure che gli agenti conoscono bene, sono stati condannati per sequestro di persona. Il sequestro della stessa persona che andava in giro per Roma sotto una falsa identità e con un passaporto diplomatico fasullo.



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di Lirio Abbate
espresso.repubblica.it
2021-10-26 13:35:00 ,

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