Due racconti e mezzo
Correva l’anno 1386.
Il cavaliere francese Jean de Carrouges muoveva allo scudiero Jacques Le Gris la gravissima accusa di essersi introdotto nel suo castello in sua assenza e di aver violentato sua moglie Marguerite de Thibouville, appellandosi al re Carlo VI per poter risolvere la questione tramite un duello di Dio: tale usanza prevedeva la risoluzione di una disputa giudiziaria per mezzo di uno scontro all’ultimo sangue tra i due individui coinvolti, scontro il cui vincitore, secondo le credenze del tempo, sarebbe stato determinato dalla volontà divina, rivelando così chi stesse nella ragione e chi nel torto.
Questa fu l’ultima occasione nella quale venne impiegato un duello di Dio per risolvere una faida.
Prendete questa vicenda storica, aggiungete la struttura narrativa di Rashomon di Akira Kurosawa e i racconti frammentati di Quentin Tarantino, e avrete ottenuto l’ultima fatica cinematografica di Ridley Scott.
Se volete sapere quanto e se il regista britannico sia riuscito a rendere giustizia (è proprio il caso di dirlo) a tale vicenda, addentriamoci nell’analisi senza spoiler (anche se gli spoiler li hanno già fatti tutti Carrouges e Le Gris nel 1386) di The Last Duel.
Non ho visto, non ho sentito, ma parlo
Come trasporre sul grande schermo una storia di cui conosciamo con certezza lo svolgimento e il finale, ma non l’inizio?
Come raccontare la causa scatenante del conflitto tra i due duellanti (storicamente non si hanno certezze che lo stupro di Lady Marguerite sia effettivamente accaduto) evitando di ricadere nel falso storico?
Come facciamo a evitare che il film sia composto da due ore e un quarto di scene in cui i due contendenti si urlano a vicenda “STAI MENTENDO” “NO, TU STAI MENTENDO” per poi far finire tutto in mega rissone (anche perché se cercate questo tipo di struttura narrativa basta guardare un qualunque talk show italiano)?
La soluzione di Ridley Scott è tanto semplice quanto funzionale. Dividere la struttura del film in tre segmenti, ognuno dei quali racconta la vicenda dal punto di vista dei tre protagonisti nelle loro rispettive versioni ed è introdotto da una didascalia: “la verità secondo Jean de Carrouges” (Matt Damon), “la verità secondo Jacques Le Gris” (Adam Driver) e “la verità secondo Lady Marguerite” (Jodie Comer).
I tre segmenti non hanno solo il banale scopo di raccontare tre versioni della stessa vicenda, ma anche di darci conto di altre vicende trasversali riguardanti i singoli personaggi che vanno poi ad incrociarsi solo in alcuni momenti chiave: eventi che in uno dei tre segmenti sono appena accennati, in un altro possono essere mostrati integralmente, rendendo più chiare le motivazioni e lo svolgimento di certi passaggi (qualcuno ha per caso detto “Pulp Fiction”?).
Altro elemento da lodare è come i tre mediometraggi rispecchino ognuno la personalità del suo rispettivo protagonista: austero e freddo quello con protagonista Carrouges, brillante ed emotivo quello su Le Gris, tragico e malinconico quello di Lady Marguerite.
Poco da dire sul primo passaggio, dato che serve più ad introdurci alla vicenda che a farci empatizzare realmente con i personaggi.
Dei tre il più efficace è senza dubbio il secondo, quello dedicato a Le Gris, grazie alla maggior caratterizzazione dei suoi protagonisti (anche lo stesso Carrouges spicca maggiormente in questo segmento che in quello che lo vede protagonista) e alla presenza di un Ben Affleck inaspettatamente efficace in un ruolo insolitamente sopra le righe per gli standard dell’attore, quello del conte Pierre d’Alençon.
Il terzo segmento, quello con protagonista Lady Marguerite, risulta purtroppo il più debole in quanto aggiunge troppo poco alla trama principale, ma tratteggia in modo efficace la tragica figura di una nobildonna di spiccata intelligenza e rara bellezza nata nel posto sbagliato al momento sbagliato, condannata ad essere oggetto di contesa tra un uomo irruento e possessivo ed uno vizioso e superficiale, ad essere al centro dell’attenzione di due individui che la amano in modi diversi ma entrambi tossici, a vivere in una società superstiziosa e sanguinaria che le impedisce di brillare per qualcosa che non sia il ruolo di moglie e madre.
Insomma, un tipo di narrazione che in un film del 2021 ambientato nel periodo medievale risulta praticamente inevitabile, e che non peserebbe in alcun modo sul film se non fosse per un piccolo dettaglio.
Prima vi ho parlato di come ogni segmento venga introdotto da una didascalia: ebbene il terzo segmento rappresenta l’eccezione, in quanto la didascalia “la verità secondo Lady Marguerite” è seguita da un’altra scritta, ossia “la verità”.
Ora. È ovvio che quando si racconta una storia ambientata in un tempo in cui le donne erano sottomesse e impossibilitate a determinare il proprio destino, empatizzare per le figure femminili risulta praticamente inevitabile, ma da qui a prendere una posizione netta su una vicenda della quale di fatto sappiamo poco o nulla, è tutto un altro paio di maniche.
A tutti dispiace per le condizioni della donna a quel tempo, ma sarebbe stato più giusto mantenersi completamente neutrali, limitandosi a mostrare le tre versioni della vicenda, quasi fossero testimonianze di un processo.
“Eri mio fratello Jacques! Ti volevo bene!”
Ma che sia il punto di vista di Carrouges o di Le Gris, che i personaggi siano nobili o detestabili, o che siano veritieri o meno, lo scopo di questi segmenti è solo uno: fare da preambolo a quel duello all’ultimo sangue preannunciato già dal titolo, e le aspettative vengono pienamente rispettate.
Azione frenetica, fisica, e concreta fanno di questa scena l’apice del film, e anche se conoscerete già il finale della vicenda e il vincitore del duello (nel caso in cui vi siate voluti informare per giungere preparati in sala), il realismo e la violenza della messa in scena saranno in grado di colpirvi come un pugno allo stomaco, e qui sta forse l’unico problema del film: questo pugno allo stomaco, questa tensione emotiva, questo apice di dramma poteva risultare ancora più forte se ci fosse stata un’effettiva chimica tra i due protagonisti.
Quel duello che in teoria è la tragica fine di un’amicizia rovinata dagli eventi e dalle circostanze finisce per risultare la naturale conclusione di un rapporto teso fin da subito: Damon e Driver sembrano essere fin dall’inizio in conflitto, anche nei momenti più leggeri e distesi non sembrano mai davvero amici, e questo riduce l’impatto emotivo del cruento finale.
È un finale crudo, violento, ma non drammatico.
Anzi, a essere drammatico lo è, ma per un motivo diverso: lo è grazie ad una ultima profonda riflessione critica sulla società del tempo, una società che quando giunge il momento decisivo per determinare la veridicità delle accuse appare decisamente più interessata al sangue piuttosto che alla giustizia, a esaltare il vincitore e dileggiare il vinto piuttosto che a chi è effettivamente innocente e chi colpevole, a glorificare la forza di un uomo costretto a realizzarsi esclusivamente nella violenza, mentre una donna è destinata a restare nell’ombra anche quando è il suo onore ad essere in gioco.
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di Ivan Guidi
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2021-10-14 11:23:15 ,