
In un giorno che avrebbe dovuto segnare un passo avanti storico nella tutela delle donne, il Senato ha trasformato l’occasione in una ferita politica e simbolica difficilmente rimarginabile. Proprio il 25 novembre, Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, la maggioranza di destra ha deciso di fermare il DDL Stupro — il testo che avrebbe introdotto in Italia il principio fondamentale secondo cui sesso senza consenso significa stupro.
Un testo passato all’unanimità alla Camera, sostenuto perfino da un inedito asse Meloni–Schlein, frutto di compromessi e di un lavoro bipartisan raro nel panorama politico italiano. Tutto lasciava immaginare che il voto in Senato sarebbe stato una formalità. E invece no.
Il colpo di mano della maggioranza
All’improvviso, in Commissione Giustizia, la Lega ha chiesto un rinvio, aprendo la strada a Fratelli d’Italia e Forza Italia per fermare tutto. La motivazione ufficiale? “Servono nuove audizioni” e “migliorie tecniche”.
Una formula anodina che, però, maschera una realtà molto più politica: la maggioranza ha scelto di ritirarsi proprio sull’unica riforma progressista che aveva deciso di sostenere. Proprio quella sulla quale aveva dimostrato di sapersi muovere come un blocco compatto e responsabile.
Il risultato è stato immediato: le opposizioni hanno abbandonato l’aula. Una scelta inevitabile, quasi obbligata, di fronte a un dietrofront considerato incomprensibile, ingiustificabile, e soprattutto irrimediabile sul piano simbolico.
Un tradimento politico e culturale
Il DDL non è stato bocciato, tecnicamente. È stato “congelato”. Ma in politica i simboli pesano quanto — e spesso più — dei voti.
E il simbolo che questo stop manda al Paese è devastante: nel giorno in cui ovunque si chiedeva un segnale forte contro la violenza, la maggioranza ha scelto di fermare il provvedimento più atteso, più discusso e più significativo sulla tutela dell’autodeterminazione delle donne.
Questa retromarcia appare tanto più grave perché arriva dopo settimane in cui la presidente del Consiglio aveva rivendicato un dialogo istituzionale con l’opposizione proprio su questo testo. Aveva parlato di responsabilità, di serietà, di un segnale al Paese.
Quella promessa si è sciolta in poche ore.
Una destra che cade la maschera
Il centrodestra ha provato a giustificare la frenata parlando di “rischio di ribaltamento dell’onere della prova”, di “vendette possibili”, di “testo da perfezionare”.
Ma il sospetto, forte e legittimo, è che la Lega abbia voluto intestarsi una battaglia identitaria interna alla coalizione, imponendo la propria linea più retriva e costringendo Fratelli d’Italia a seguirla per ragioni di equilibrio politico.
Il risultato finale è uno solo: una destra che si era mostrata, per una volta, capace di affrontare con maturità una questione cruciale, ha preferito ripiegare su una posizione che sa di passato, di timori irrazionali, di ambiguità culturale.
Una ferita difficile da sanare
A prescindere dal futuro del DDL — che ora rischia di incagliarsi per mesi — la fiducia tradita è difficile da recuperare.
Perché oggi molte donne, molte associazioni, molte famiglie, molti cittadini attendevano un segnale. Attendevano il sì definitivo a una legge che avrebbe avuto non solo valore giuridico, ma un peso culturale immenso.
Che questo segnale sia stato negato proprio oggi, proprio così, pesa più di mille dichiarazioni.
È uno schiaffo.
Una mancanza di rispetto.
Una vergogna politica che resterà.
Il messaggio che rimane è chiaro e amaro: quando si tratta di diritti, quando si tratta di consenso, quando si tratta di protezione reale, questa maggioranza si divide, si impaurisce, si tira indietro.
E questa, al di là di ogni retorica, è la vera notizia del 25 novembre.















