di Letizia Bonelli

C’è sempre un momento, prima di ogni tragedia, in cui una donna manda un segnale. A volte è un sospiro trattenuto. A volte un “va tutto bene” che non convince nemmeno chi lo pronuncia. A volte è il silenzio: quello che pesa più di mille parole.
Il femminicidio non nasce mai all’improvviso. Germoglia in una terra malata fatta di controllo, umiliazioni, paura quotidiana. Mentre la società si gira dall’altra parte, pensando che “tanto sono cose loro”, una donna si spegne un pezzo alla volta.
Non riesco più a chiamarlo “delitto passionale”: è un insulto. Qui non c’entra la passione, non c’entra l’amore.
C’entra il possesso.
C’entra la pretesa di decidere della vita di un’altra persona.
C’entra la convinzione malata che una donna sia un’estensione, non un essere umano completo.
E c’entriamo anche noi.
Ogni volta che normalizziamo la gelosia.
Ogni volta che sorridiamo a frasi come “senza di me non sei niente”.
Ogni volta che accettiamo rapporti in cui una donna deve chiedere il permesso di essere sé stessa.
Ogni donna uccisa è una domanda che ci cade addosso: dove eravamo mentre succedeva?
Io me lo chiedo spesso, e ogni volta il dolore cambia posto, graffia in un punto diverso.
Ma non voglio scrivere solo di dolore. Voglio parlare anche della parte viva, vibrante, luminosa del femminile, quella che nessun uomo violento potrà mai cancellare.
Le donne sono la gentilezza che non si vergogna di essere fragile. Sono la forza che continua a camminare anche quando le gambe tremano. Sono la capacità di tenere insieme casa, lavoro, emozioni, paure: tutto.
Sono amore che non soffoca, ma libera. Sono voci che, quando parlano, cambiano il mondo un centimetro alla volta.
Il femminicidio è il punto più oscuro di un problema enorme.
Ma la risposta non può essere solo la rabbia.
La risposta è educazione, è cultura.
È insegnare ai ragazzi che l’amore non controlla, non comanda, non pretende.
È dire alle ragazze che non devono accontentarsi di chi le riduce.
È ascoltare le donne, davvero, senza giudicarle, senza dire loro “te l’avevo detto”.
Finché anche una sola donna avrà paura di rientrare a casa, non potremo dirci una società civile.
Finché una sola donna dovrà spiegare perché non se n’è andata prima, avremo fallito.
Questo articolo non vuole essere un grido: vuole essere un invito.
Un invito a guardarci negli occhi, uomini e donne, e riconoscere che la violenza non è un fatto privato: è una ferita collettiva.
E ogni ferita, se ignorata, diventa piaga.
Io scelgo di stare dalla parte delle donne, sempre.
Dalla parte delle loro ombre e delle loro luci.
Delle storie interrotte e di quelle che ancora possono cambiare strada.
Dalla parte della vita, che ha il volto di una donna che dice: «Io merito rispetto».
E quando una donna pronuncia quella frase, il mondo dovrebbe fermarsi.
E ascoltare.















