di Alberto Grandi
Dalle orche, simbolo di morte di Stefano D’Arrigo, ai tonni saggi e chiacchieroni di Riccardo Bacchelli, passando per il diluvio fatalista di Nicola Pugliese e le fiamme apocalittiche di Dante Virgili, dieci romanzi da salvare dall’oblio.
Malacqua, Nicola Pugliese
Nicola Pugliese era nato a Milano (per sbaglio, come amava dire) e aveva vissuto a Napoli e poi ad Avello, dopo aver smesso di fare il giornalista. Scoperto da Italo Calvino, pubblicò il suo unico romanzo (l’altra sua opera è un’antologia di racconti) Malacqua nel 1977. Disinteressato a una ripubblicazione, si dovette attendere il 2013 (l’autore era deceduto l’anno prima) per riavere il libro tra le mani. Oggi sta per tornare una terza volta, per volontà di Bompiani. Il romanzo narra di quattro giorni in cui a Napoli piove ininterrottamente e piove sui vari personaggi che subiscono questo evento nefasto, in un modo e nell’altro. È un romanzo corale, cronaca del progressivo sfascio esistenziale e strutturale della città, ma sarebbe un errore leggerlo solo come una denuncia. Malacqua ha una componente fatalista, che a tratti ricorda il realismo magico di Cent’anni di solitudine: nella temporale napoletana, difatti, si sente l’eco di quella che colpisce Macondo per anni e anni. È la cronaca di quattro giorni fuori dal mondo, di eventi straordinari che lo spirito partenopeo fa ricadere inevitabilmente nel girone dell’ordinario. Lo stile elegante e scorrevole è un incentivo in più alla lettura di questo cult che nel 2017 è stato tradotto in inglese.
Dissipatio HG, Guido Morselli
Grande autore ignorato dalla critica finché non morì suicida – tutte le sue opere furono pubblicate postume – all’indomani di quel gesto terribile, non si può leggere tale romanzo come un testamento. HG, difatti, sta per Human Generis, e il romanzo parla di un uomo che vuole uccidersi annegandosi in un lago dentro una grotta. Solo che nel momento della verità manca il suo obiettivo e si addormenta. Una volta desto, scopre che la specie umana è misteriosamente scomparsa. Non rimane più nessuno al mondo, tranne lui che vive una realtà irreale e “giusta” allo stesso tempo, come se alla fin fine, la civiltà non fosse sempre stato altro che quello: un enorme e inutile deposito di una specie estintasi così come ha vissuto, senza una vera motivazione. Grande romanzo nichilista, se non il migliore, il più suggestivo di Morselli.
Casa d’altri, Silvio D’Arzo
Grande talento scomparso a soli 32 anni, D’Arzo, vero nome Ezio Camparoni, scrisse un solo romanzo, All’insegna del buon corsiero, e diversi racconti, tra i più belli della nostra letteratura. La sua opera più riuscita è il postumo Casa d’altri che Eugenio Montale definì “un racconto perfetto”. La trama, citando le parole del protagonista nel filane (ma senza spoilerare, tranquilli), tratta di “Un’assurda vecchia: un assurdo prete: tutta una storia assurda da un soldo”. L’assurdo vecchio è un prete ormai assuefatto alla monotonia delle giornate che non ha più alcuna curiosità al mondo, l’assurda vecchia è Zelinda, che un giorno gli fa visita e chiede se è possibile, per la Chiesa Cattolica, che due che si sono sposati poi si dividano e uno decida di sposarsi una seconda volta. La domanda, intuisce il prete, è meno disinteressata e astratta di come la vecchia vuole farla passare e sottrae il prete alla monotonia delle ore e lo accende di curiosità. Non dico altro. Nella versione tascabile Einaudi, Casa d’altri conta solo 45 pagine, densissime, da gustare parola per parola.
Horcynus Orca, Stefano D’Arrigo
Capolavoro? Quasi capolavoro? Romanzo sfuggito di mano al suo autore fino a trasformarsi in un figlio deforme? Una cosa possiamo affermarla con certezza: oggi Horcynus Orca non troverebbe un editore paziente da sostenere la pubblicazione delle sue 1264 pagine (prima versione originale). Stefano D’Arrigo lavorò a questo progetto dal 1957 al 1975, sostenuto economicamente dalla Mondadori. Romanzo di cui si parlò ampiamente ancor prima che venisse pubblicato come di futuro capolavoro, di cosa narra Horcynus Orca? Del ritorno a dimora del soldato ‘Ndrja Cambria, in cerca di un passaggio per attraversare lo stretto di Messina – siamo all’indomani dell’armistizio del 1943. Il romanzo è lungo cinque giorni, mescola presente e passato e ammanta i fatti narrati di valenza mitologica – fin troppo chiaro il richiamo a Omero. La cosa interessante è la lingua: un pastiche di italiano, siciliano, linguaggio dei pescatori e termini inventati di sana pianta. La mole dell’opera e lo sperimentalismo fanno pensare all’Ulisse, anche se il parallelo più azzeccato è con l’altro tomo joyciano, il Finnegans Wake per via del linguaggio magmatico e del sogno e della realtà che a tratti sembrano fondersi. Parere personale? L’incipit parla di un capolavoro (nel leggere le prime righe sembra di subire un incantesimo: Il sole tramontò quattro volte sul suo viaggio e alla fine del quarto giorno, che era il quattro di ottobre del millenovecentoquarantatré, il marinaio nocchiero semplice della fu regia Marina ‘Ndrja Cambrìa arrivò al paese delle Femmine, sui mari dello scill’e cariddi), poi il romanzo si avvita in se stesso, si ripiega, indugia troppo fino a rovinarsi e a essere ridondante. Rimane comunque un esperimento interessantissimo e il senso della grandezza di un uomo che diede tutto se stesso al proprio sogno.
Si riparano bambole, Antonio Pizzuto
Sperimentalista, dalla lingua ricercata e raffinata, amato da Eugenio Montale e Gianfranco Contini (che lo definì “il Joyce italiano”), Pizzuto esordisce tardi come autore, oltre i sessant’anni, ma senz’aver mai rinnegato la sua vocazione letteraria e coltivandola parallelamente alla carriera di poliziotto, intrapresa per motivi economici. Si riparano bambole è uno dei suoi romanzi più belli. Narra la storia di Pofi, figlio di una famiglia borghese priva di grandi accadimenti, ma lo scopo della narrazione è scandire i momenti della vita, dall’infanzia curiosa alla vecchiaia rassegnata, procedendo per fotogrammi, istantanee di quotidianità che insieme tessono il filo della memoria, affreschi come le ore passate nella dimora di campagna o i momenti vissuti in un tribunale. Il romanzo funziona più come una telecamera che una narrazione in senso tradizionale, cogliendo vari momenti, trasformando l’esperienza umana del singolo in esperienza della memoria per il lettore.
La distruzione, Dante Virgili
Di questo autore, oscuro correttore di bozze alla Mondadori e, sotto pseudonimo, firma di western per ragazzi, si hanno pochi dati e nessuna foto. Intellettuale di destra, simpatizzante per il nazionalsocialismo all’indomani della disfatta di quell’ideologia, si dice che una volta deceduto (1992), nessun parente si fece avanti per il riconoscimento della salma. Recentemente i resti di Virgili avevano rischiato di finire nell’ossario comune del cimitero di Musocco, triste luogo nel quale terminano i defunti che non hanno qualcuno in vita che si occupi del mantenimento della tomba. Ma perché ci occupiamo di lui? Perché firmò un romanzo, La distruzione, ignorato al momento della pubblicazione e rivalutato soprattutto per la carica apocalittica e profetica in esso contenute. La storia è quella semi autobiografica di un correttore di bozze, sadico, sessualmente frustrato che sogna la rinascita del nazionalsocialismo e il mondo ridotto in fiamme. Nelle pagine finali viene prefigurata la distruzione delle Torri gemelle (era il 1972!). Scritto con la tecnica joyciana dello stream of consciousness, La distruzione non è forse un capolavoro, ma una testimonianza a livello patologico di una mente malata e della cifra apocalittica della nostra epoca.
Il prato in fondo al mare, Stanislao Nievo
Sì, quel cognome non è un caso: Stanislao (1928-2003) fu il pronipote di Ippolito e difatti il romanzo racconta la ricerca della verità sulla fine dell’illustre avo, autore delle Confessioni di un italiano. Stanislao vuole capire cosa si celò veramente dietro il naufragio dell’Ercole, il battello a vapore che, salpato da Palermo nel marzo 1861, avrebbe dovuto portare a Torino la contabilità della spedizione dei Mille. Come le cronache raccontano, l’imbarcazione s’inabissò a causa di una tempesta e con essa finì in fondo al mare, uno dei nostri più grandi autori. Ma c’è chi sospetta che l’inabissamento dell’Ercole fu la prima strage di stato, un incidente calcolato visto il carico compromettente che trasportava. Il romanzo si muove sul doppio binario non solo della fantasia (Stanislao discenderà l’abisso pur di trovare il relitto) e della cronaca ma della volontà di ricerca storica e del bisogno inconscio di ricongiungimento con le proprie radici . Valse al suo autore il Premio Campiello nel 1975 e un’entusiastica recensione di Pier Paolo Pasolini: “Alcuni passi si leggono col cuore in gola. Per esempio, la descrizione allucinatoria del naufragio e della morte per affogamento di Ippolito e dei suoi compagni di sventura”.
Rubè, Giuseppe Antonio Borgese
Filippo Rubè si trasferisce dalla Sicilia a Roma per diventare avvocato e darsi alla politica. Acceso interventista, allo scoppiare del primo conflitto mondiale si arruola. Terrorizzato dall’idea di avere paura, disperatamente alla ricerca di eroica consacrazione, si getta nella mischia, riportandone ferite e gloria. Ma ciò non basterà a placare le sue confuse e mai sopite ambizioni. Altrettanto inquieta e incerta è anche la sua vita sentimentale, divisa fra l’aristocratica Mary, la giovane Eugenia e la bellissima Celestina. La sua esistenza procede così fra insicurezze economiche e fallimenti sentimentali, passioni politiche smodate e frustrazioni professionali, fino a un tragico epilogo segnato dalla follia. Ritratto di un uomo mancato che non riesce a realizzare né a soffocare le proprie aspirazioni, rimanendo in questo modo vittima della propria inettitudine, Rubè è l’emblema di quella crisi di valori generazionale, sullo sfondo di una crisi politica nazionale che accomuna i protagonisti della letteratura italiana degli anni Venti.
Il romanzo di Moscardino, Enrico Pea
Pubblicata nel 1944, l’opera è composta da quattro storie collegate tra loro: Moscardino, tradotta in inglese da Ezra Pound, Il Volto Santo, Magoometto e Il servitore del Diavolo. Negli anni Settanta ci fu una ristampa voluta da Italo Calvino. Moscardino è il soprannome del piccolo protagonista e narra – tra autobiografia lirica, slanci mitico-fantastici e un grande senso della narrazione – la storia della sua famiglia e del rapporto con il leggendario nonno. In questo carattere sospeso tra racconto, mitologia e autobiografia sta la grandezza e l’unicità dell’esperienza letteraria di Enrico Pea, uno dei più significativi scrittori italiani del Novecento.
Lo sa il tonno, Riccardo Bacchelli
Famoso per il Mulino del Po, Bacchelli fu autore prolifico. Tra le sue opere minori, da ricordare questa favola morale e filosofica. Alle Pescherie Vecchie della sua città, un trentenne bolognese ascolta un tonno raccontare, tra il ghiaccio di una rivendita, il suo apprendistato giovanile con una balena, l’incontro con le aragoste pettegole, con i granchi umiliati e offesi dalle medesime in quanto razza inferiore, con certe ostriche di malaffare, e infine con i tonni suoi simili. Due tonne adulte e procaci tentano di sedurlo, ma in un nuovo branco, si imbatte in una tonnerella di buoni costumi e al largo di Portovenere la sposa. Ma l’amicizia con un pescespada gli riserva ancora molte avventure. Un gioco letterario ironico e divertente, una parodia del romanzo di formazione.
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2022-03-29 17:00:00