Prima che iniziasse la settimana più folle degli ultimi trent’anni per la politica italiana, dove sono saltate regole e convenzioni più che consolidate della liturgia repubblicana, Mauro Munafò sull’Espresso aveva argomentato che per salire al Quirinale non servono tweet, né like, tantomeno love e wow.
L’elezione del Presidente della Repubblica «è un argomento che alimenta dibattito e tifo sui social e sul web, appassionando migliaia di persone, ma l’impatto che la chiacchiera digitale ha sulla sfida per il Colle è vicina allo zero».
Per l’aritmetica e la grammatica quirinalizie il ragionamento di Munafò non fa una grinza, soprattutto se confinato in un modello di società pre-digitale che da qualche anno ha lasciato il posto a quella che van Dijck, Poell e de Waal hanno brillantemente definito come una platform society.
Le piattaforme “non causano una rivoluzione, piuttosto stanno progressivamente infiltrando (e convergendo con) le istituzioni tradizionali e le pratiche che strutturano sul piano organizzativo le società democratiche”. A nessuno oggi può sfuggire “l’inestricabile relazione tra le piattaforme online e le strutture sociali, che non sono un riflesso delle prime, ma ne rappresentano il prodotto”.
Una relazione talmente fitta, pervicace ed estesa che sfrutta l’iper-connettività che “ha invaso le nostre vite in modi di cui non ci rendiamo nemmeno conto o che non comprendiamo pienamente”, per raccontarla con le parole di Tom Nichols, tant’è che basterebbe pensare per un attimo che chiunque “abbia uno smartphone o un account di posta elettronica è connesso, ed è tanta gente”.
Stando all’ultimo rapporto del Global Digital Report 2021, solo in Italia gli smartphone sono presenti nelle tasche e nelle mani del 97 % di noi, restiamo connessi per oltre sei ore al giorno ad internet, delle quali quasi due ore le trascorriamo sui social network utilizzando per il 98 er cento appunto il e i nostri smartphone, mentre, tra le piattaforme popolate da più dell’80 % degli italiani ci sono Facebook, Google, YouTube e WhatsApp. È questi sono solo una parte dei dati rilevabili che dovrebbero farci comprendere pienamente lo spessore della relazione tra la Rete e i nostri comportamenti pubblici, ma soprattutto riflettere sull’influenza che l’iper connettività e la piattaformizzazione delle società hanno nel condizionare i processi democratici, a prescindere dai modelli elettorali. A gennaio dello scorso anno, l’assalto al Campidoglio, che ha sconvolto il mondo occidentale, ha assunto quelle forme e quella carica di violenza solo grazie alla capacità reticolare delle piattaforme di centuplicare il messaggio e il suo carico d’odio.
Certo, ha ragione Munafò nel sostenere che un like non serve ad eleggere il Presidente della Repubblica, e, aggiungo, in astratto neanche un sindaco o un senatore, ma è doveroso chiederci quanto nel caso italiano l’indignazione montante della Rete, in cui i leader e i protagonisti della vicenda elettorale erano contemporaneamente protagonisti e spettatori, ha costretto tutti alla resa e all’inevitabile rielezione di Sergio Mattarella.
Un’indignazione che è andata crescendo sin dall’esito della prima votazione, alimentata dall’inutile esercizio dell’annuncio di nomi e rose di candidati che di volta in volta venivano inopinatamente sacrificati, dallo spettacolo indecoroso delle preferenze ad illustri sconosciuti e dall’inconsistenza di una politica tanto piaciona quanto incapace anche di fare il proprio dovere. È stata questa onda silenziosa ma violenta ad aver travolto tutti e tutto, leader, e peones, attori e retrovie, causando l’accelerazione finale che ha portato alla processione penitenziale di supplica al precedente inquilino del Colle.
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di Domenico Giordano
espresso.repubblica.it
2022-02-01 08:39:00 ,