di Sandro Iannaccone
Dieci secondi sono pochi ma, in alcuni casi, possono fare la differenza. Pensiamo per esempio ai terremoti: se si riuscisse a sapere con dieci secondi di anticipo che sta per arrivare una scossa, per esempio, gli studenti nelle scuole potrebbero mettersi sotto i banchi; un chirurgo potrebbe interrompere un’operazione; chi abita al primo piano avrebbe forse il tempo di uscire in strada. È questo il razionale dei cosiddetti earthquake early warning, ovvero “avvertimenti sismici precoci”, una tecnologia che sfrutta una rete di sensori e una serie di modelli matematici e algoritmi per rilevare i terremoti in tempo reale, laddove sono appena iniziati, e diramare un allarme alle zone circostanti per far scattare le precauzioni di sicurezza prima che le onde sismiche le raggiungano.
Sistemi di questo tipo sono già una realtà, e attualmente sono operativi in nove nazioni al mondo, tra cui Stati Uniti d’America, Messico, Giappone, Romania e Turchia. Ora, uno studio appena pubblicato sulle pagine di Nature Communication valuta il potenziale impatto dell’adozione di questa tecnologia in diverse nazioni in Europa, giungendo alla conclusione che i paesi della regione mediterranea, e in particolare Grecia e Italia, potrebbero trarre grande beneficio dall’implementazione dei sistemi di allerta precoce. Tra gli autori del lavoro ci sono due esperti italiani, Carmine Galasso, affiliato alla University College London e alla Scuola Universitaria Superiore di Pavia, ed Elisa Zuccolo, dello European Centre for Training and Research in Earthquake Engineering al Department of Risk Scenarios di Pavia.
Lo studio sull’Europa
Nel loro studio, gli autori hanno analizzato i dati raccolti da 2.377 stazioni di sensori già attive, concentrandosi in particolare sulla loro posizione e sul tempo che intercorre tra la rilevazione delle prime onde, che viaggiano velocemente ma hanno bassa intensità, e quelle successive, più intense, responsabili dei principali danni a persone e cose. A partire da questi dati, hanno poi inferito quanto potrebbe essere il tempo di allerta medio per ciascuna posizione, il livello atteso della scossa e quante persone potrebbero essere interessate dal sisma.
Questa informazione, combinata con una stima dell’accuratezza del sistema di allerta, ha portato gli scienziati a formulare un indicatore che misura la potenziale utilità di un sistema di allerta precoce in tutta Europa. Per ora siamo ancora alla teoria. Affinché un sistema di questo tipo possa essere realmente implementato, dicono ancora gli autori, le stazioni di monitoraggio già esistenti in Italia e in Grecia dovrebbero essere aggiornate in modo tale da poter riuscire a raccogliere e trasmettere velocemente le informazioni più rilevanti (ossia le caratteristiche della prima onda rilevata). Sfruttando questi dati, gli algoritmi calcolerebbero poi l’intensità del terremoto, il suo epicentro e le scosse che provocherebbe in una certa area. E infine invierebbero queste previsioni all’area interessata, auspicabilmente nel minor tempo possibile, facendo scattare una serie di misure automatiche (anche esse da implementare) e magari una segnalazione acustica per avvisare la gente dell’arrivo imminente del terremoto.
Cosa cambia con gli algoritmi di alert
“I sistemi di questo tipo – spiega a Wired Alessandro Amato, dirigente di ricerca all’Istituto di Geofisica e Vulcanologia, attualmente in forze al Centro allerta tsunami – funzionano con uno o più sismometri in rete, disposti in modo da essere più vicini possibile alle zone a più alto rischio sismico. I modelli matematici, partendo dai dati rilevati, sono in grado di calcolare rapidamente la magnitudo del terremoto e di individuare la cosiddetta zona cieca, ovvero la regione nelle immediate vicinanze dell’epicentro, così vicina che sarà raggiunta dal terremoto prima dell’arrivo dell’allerta. Il principio è quello della triangolazione, ossia dell’incrocio di informazioni provenienti da punti geografici diversi per inferire l’esatta posizione dell’epicentro, e della misura del tempo che intercorre tra l’arrivo delle onde p, le più veloci, e le onde s, più lente”.
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www.wired.it
2022-02-10 06:00:00