di Andrea Giordano
L’immaginario visionario, moderno e all’avanguardia, di Dario Argento, non conosce fine, anzi adesso si rinnova grazie a The Exibit, all’interno del Museo Nazionale del Cinema di Torino, in programma dal 6 aprile 2022 al 16 gennaio 2023, curata da Domenico De Gaetano e Marcello Garofalo, ed in collaborazione con Solares Fondazione delle Arti. Torino, il set, la città «così mutevole ed espressiva» di tante avventure, scorci, interni-esterni di palazzi, vie, piazze, torna così a essere d’atmosfera al punto di aver pensato pure di trasferircisi, lui che è romano doc.
L’occasione di celebrarlo, dunque, ma anche di celebrarsi, prende forma grazie ad un percorso cronologico, tematico, multiforme, scandendo i sogni, gli incubi, le profondità della psiche, le “care” tenebre dell’anima. Di notte e di giorno. Quattro anni di lavoro per raccogliere una vita artistica (con due anni di attesa causa Covid-19) che si riannodano ora tra ricordi e memorie, 44 oggetti di scena, costumi originali, bozzetti (quelli anche di Giorgio Armani realizzati per Phenomena),le creature (meccaniche) e i trucchi di Sergio Stivaletti, i manifesti, le fotografie inedite, pellicole, libri, fumetti, coltelli e mannaie.
Scorrono immagini, parole, le musiche di Morricone e dei Goblin, le scritte, come la prima iniziale: “Nel corso della mia carriera ho imparato che se riesci a costruire un universo coerente, per quanto folle esso sia, hai già ottenuto la sospensione d’incredulità necessaria a raccontare quello che vuoi”. E colori, tanti. Dal giallo al nero, dal (Profondo) rosso al velluto grigio. Sfumature del Maestro assoluto (uno dei pochi a fregiarsi di questa nomea in Italia) dell’horror e thriller, in grado ancora però di sorprendere, e commuoversi di fronte a tanto affetto collettivo. Un sentimento che lo porta a chiedersi «Dario Argento, chissà chi è? Non credo di conoscerlo tanto bene. Mi sento come un clandestino. Faccio film col suo nome, ma chi sia veramente non lo so». Lo ripete quasi fosse un mantra. Ispirato e ispirazione, la stessa che gli è arrivata dall’arte, dall’architettura, dal cinema stesso, citando Psycho di Alfred Hitchcock come uno dei capolavori perfetti (ma non per la sceneggiatura), dalla letteratura di Edgar Allan Poe, l’autore prediletto e ancora moderno, «dalla mia psicologia», là dove molto è nato e si è poi trasformato in film. Ma anche dalla casualità, da colpi geniali, da intuizioni al volante, già, come quando insieme al fratello, racconta, decise che sì, Profondo Rosso, sarebbe stato il titolo giusto per quella storia.
E ad osservare l’itinerario espositivo basta un attimo per entrare nel suo modo di indagare la realtà attraversata soprattutto grazie alle donne: figure femminili, mai banali, muse, desiderose di carpire quello sguardo (in)visibile.
Sono molte: Jessica Harper, Jennifer Connelly, Asia Argento (senza dimenticare l’altra figlia, Fiore, designer e collaboratrice), Catherine Spaak, Daria Nicolodi, fino ad Ilenia Pastorelli, l’ultima nell’ordine ad entrare nel gruppo, protagonista di Occhiali Neri, il ritorno alla regia dopo Dracula 3D. «Tutto parte da mia madre, Elda Luxardo, era una famosa fotografa e ritrattista», racconta. «Dopo la scuola la raggiungevo allo studio, mi sistemavo in un camerino, lungo un corridoio: da un lato c’erano le attrici da scattare, sento ancora nel naso l’odore del make up. Si spogliavano davanti a me come se non esistessi, si cambiavano, non mi vedevano. Ecco lì ho cominciato a capire le donne, a quanto dovessero essere protagoniste». Donne protagoniste, come lo fu Claudia Cardinale che in C’era una volta il West di Sergio Leone, di cui Argento scrisse il soggetto insieme a Bernardo Bertolucci, diventa la Jill McBain coraggiosa e di culto.
La dimensione umana allora da un lato, quella animale dall’altra, metafora iper presente: uccelli (dalle piume di cristallo), insetti, ratti, mosche, gatti (a nove code), cani. Mai passivi, ma forti, agguerriti, da domare. Nessuna volontà però di esorcizzare il male, l’Argento regista, narratore di genere e generi, sempre più dispersi in Italia, ha semmai seguito un proprio disegno ben preciso, controcorrente e sovversivo, come l’amico George A. Romero, influenzando di fatto i linguaggi, e altri grandi: Quentin Tarantino, Nicolas Winding Refn, Guillermo Del Toro.
Lo ha fatto senza paura (è il titolo pure della sua splendida autobiografia uscita nel 2014), affrontando il tema trasversale per eccellenza: la paura dell’altro, della poca inclusione, del razzismo, dell’imprevedibilità, del destino avverso. Ma il sangue, copioso negli anni gloriosi, ha lasciato il passo a qualcosa di più, e si è sacrificato in nome di nuovi concetti, più raffinati e saggi, e non importa se qualche film non è stato accolto come avrebbe voluto. «Se non ci fosse paura, però, non ci sarebbe vita» dice, «perché la paura ci evita tanti pericoli: non penso sia cambiata, specialmente nel nostro profondo, viviamo l’epidemia, la guerra, tanti fatti che la alimentano. Ma quelle che racconto io non sono reali, ma immaginarie, e vengono dal mio intimo profondo».
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2022-04-06 17:00:00